La favola de’ tre gobbi, libretto, Venezia, Tevernin, 1753

 l’ombre e i silenzi; e Roma
 al secolo vetusto
 più non invidia il suo felice Augusto.
 VALENTINIANO
 Godo ascoltando i voti
10che a mio favor sino alle stelle invia
 il popolo fedel; le pompe ammiro;
 attendo il vincitor, tutte cagioni
 di gioia a me; ma la più grande è quella
 ch’io possa offrir con la mia destra in dono
15ricco di palme alla tua figlia il trono.
 MASSIMO
 Dall’umiltà del padre
 apprese Fulvia a non bramare il soglio;
 e a non sdegnarlo apprese
 dall’istessa umiltà. Cesare imponga;
20la figlia eseguirà.
 VALENTINIANO
                                  Fulvia io vorrei
 amante più, men rispettosa.
 MASSIMO
                                                      È vano
 temer ch’ella non ami
 que’ pregi in te che l’universo ammira.
 (Il mio rispetto alla vendetta aspira).
 VARO
25Ezio s’avanza. Io già le prime insegne
 veggo appressarsi.
 VALENTINIANO
                                     Il vincitor s’ascolti;
 e sia Massimo a parte
 de’ doni che mi fa la sorte amica. (Valentiniano va sul trono servito da Varo)
 MASSIMO
 (Io però non obblio l’ingiuria antica).
 
 SCENA II
 
 EZIO preceduto da istromenti bellici, schiavi ed insegne de’ vinti, seguito da’ soldati vincitori e popolo, e detti
 
 EZIO
30Signor, vincemmo. Ai gelidi Trioni
 il terror de’ mortali
 fuggitivo ritorna. Il primo io sono
 che mirasse finora
 Attila impallidir. Non vide il sole
35più numerosa strage. A tante morti
 era angusto il terreno; il sangue corse
 in torbidi torrenti;
 le minacce, i lamenti
 s’udian confusi; e fra i timori e l’ire
40erravano indistinti
 i forti, i vili, i vincitori, i vinti.
 Né gran tempo dubbiosa
 la vittoria ondeggiò. Teme, dispera,
 fugge il tiranno; e cede
45di tante ingiuste prede,
 impacci al suo fuggir, l’acquisto a noi.
 Se una prova ne vuoi,
 mira le vinte schiere:
 ecco l’armi, l’insegne e le bandiere.
 VALENTINIANO
50Ezio, tu non trionfi
 d’Attila sol; nel debellarlo ancora
 vincesti i voti miei. Tu rassicuri
 su la mia fronte il vacillante alloro;
 tu il marzial decoro
55rendesti al Tebro; e deve
 alla tua mente, alla tua destra audace
 l’Italia tutta e libertade e pace.
 EZIO
 L’Italia i suoi riposi
 tutta non deve a me; v’è chi gli deve
60solo al proprio valore. All’Adria in seno
 un popolo d’eroi s’aduna e cangia
 in asilo di pace
 l’instabile elemento.
 Con cento ponti e cento
65le sparse isole unisce;
 colle moli impedisce
 all’ocean la libertà dell’onde;
 e intanto su le sponde
 stupido resta il pellegrin che vede
70di marmi adorne e gravi
 sorger le mura, ove ondeggiar le navi.
 VALENTINIANO
 Chi mai non sa qual sia
 d’Antenore la prole? È noto a noi
 che più saggia d’ogni altro
75alle prime scintille
 dell’incendio crudel, ch’Attila accese,
 lasciò i campi e le ville
 e in grembo al mar la libertà difese.
 So già quant’aria ingombra
80la novella cittade e volgo in mente
 qual può sperarsi adulta,
 se nascente è così.
 EZIO
                                    Cesare, io veggo
 i semi in lei delle future imprese.
 Già s’avvezza a regnar. Sudditi i mari
85temeranno i suoi cenni; argine all’ire
 sarà de’ regi; e porterà felice
 con mille vele e mille aperte al vento
 ai tiranni dell’Asia alto spavento.
 VALENTINIANO
 Gli auguri fortunati
90secondi il ciel. Fra queste braccia intanto (Scende dal trono)
 tu del cadente impero e mio sostegno
 prendi d’amore un pegno. A te non posso
 offrir che i doni tuoi. Serbami, amico,
 quei doni istessi; e sappi
95che fra gli acquisti miei
 il più nobile acquisto, Ezio, tu sei.
 
    Se tu la reggi al volo,
 su la tarpea pendice
 l’aquila vincitrice
100sempre tornar vedrò.
 
    Breve sarà per lei
 tutto il cammin del sole;
 e allora i regni miei
 col ciel dividerò. (Parte con Varo e pretoriani)
 
 SCENA III
 
 EZIO, MASSIMO e poi FULVIA con paggi ed alcuni schiavi
 
 MASSIMO
105Ezio, donasti assai
 alla gloria e al dover; qualche momento
 concedi all’amistà; lascia ch’io stringa
 quella man vincitrice. (Massimo prende per mano Ezio)
 EZIO
                                            Io godo, amico,
 nel rivederti e caro
110m’è l’amor tuo de’ miei trionfi al paro.
 Ma Fulvia ove si cela?
 Che fa? Dov’è? Quando ciascun s’affretta
 su le mie pompe ad appagar le ciglia,
 la tua figlia non viene?
 MASSIMO
                                            Ecco la figlia.
 EZIO
115Cara, di te più degno (A Fulvia nell’uscire)
 torna il tuo sposo e al volto tuo gran parte
 deve de’ suoi trofei. Fra l’armi e l’ire
 mi fu sprone egualmente
 e la gloria e l’amor; né vinto avrei,
120se premio a’ miei sudori
 erano solo i trionfali allori.
 Ma come! a’ dolci nomi
 e di sposo e d’amante
 ti veggo impallidir! Dopo la nostra
125lontananza crudel così m’accogli?
 Mi consoli così?
 FULVIA
                                (Che pena!) Io vengo...
 Signor...
 EZIO
                   Tanto rispetto,
 Fulvia, con me! Perché non dirmi fido?
 Perché sposo non dirmi? Ah! Tu non sei
130per me quella che fosti.
 FULVIA
                                             Oh dio! Son quella.
 Ma senti... Ah genitor! Per me favella.
 EZIO
 Massimo, non tacer.
 MASSIMO
                                        Tacqui finora,
 perché co’ nostri mali a te non volli
 le gioie avvelenar. Si vive, amico,
135sotto un giogo crudel. Anche i pensieri
 imparano a servir. La tua vittoria,
 Ezio, ci toglie alle straniere offese;
 le domestiche accresce. Era il timore
 in qualche parte almeno
140a Cesare di freno; or che vincesti,
 i popoli dovranno
 più superbo soffrirlo e più tiranno.
 EZIO
 Io tal nol credo. Almeno
 la tirannide sua mi fu nascosa.
145Che pretende? Che vuol?
 MASSIMO
                                                 Vuol la tua sposa.
 EZIO
 La sposa mia! Massimo, Fulvia, e voi
 consentite a tradirmi?
 FULVIA
                                            Aimè!
 MASSIMO
                                                          Qual arte,
 qual consiglio adoprar? Vuoi che l’esponga,
 negandola al suo trono,
150d’un tiranno al piacer? Vuoi che su l’orme
 di Virginio io rinnovi,
 per serbarla pudica,
 l’esempio in lei della tragedia antica?
 Ah! Tu solo potresti
155frangere i nostri ceppi,
 vendicare i tuoi torti. Arbitro sei
 del popolo e dell’armi. A Roma oppressa,
 all’amor tuo tradito
 dovresti una vendetta. Alfin tu sai
160che non si svena al cielo
 vittima più gradita
 d’un empio re.
 EZIO
                              Che dici mai! L’affanno
 vince la tua virtù. Giudice ingiusto
 delle cose è il dolor. Sono i monarchi
165arbitri della terra,
 di loro è il cielo. Ogni altra via si tenti
 ma non l’infedeltade.
 MASSIMO
                                          Anima grande, (Massimo abbraccia Ezio)
 al par del tuo valore
 ammiro la tua fé che più costante
170nelle offese diviene.
 (Cangiar favella e simular conviene).
 FULVIA
 Ezio così tranquillo
 la sua Fulvia abbandona ad altri in braccio?
 EZIO
 Tu sei pur d’ogni laccio
175disciolta ancora. Io parlerò; vedrai
 tutto cangiar d’aspetto.
 FULVIA
                                             Oh dio! Se parli,
 temo per te.
 EZIO
                          L’imperator finora
 dunque non sa ch’io t’amo?
 MASSIMO
                                                     Il vostro amore
 per tema io gli celai.
 EZIO
                                        Questo è l’errore.
180Cesare non ha colpa; al nome mio
 avria cangiato affetto. Egli conosce
 quanto mi deve e sa ch’opra da saggio
 l’irritarmi non è.
 FULVIA
                                  Tanto ti fidi?
 Ezio, mille timori
185mi turban l’alma. È troppo amante Augusto;
 troppo ardente tu sei. Rifletti, oh dio!
 pria di parlar. Qualche funesto evento
 mi presagisce il cor. Nacqui infelice
 e sperar non mi lice
190che la sorte per me giammai si cangi.
 EZIO
 Son vincitor; sai che t’adoro; e piangi?
 
    Pensa a serbarmi, o cara,
 i dolci affetti tuoi;
 amami e lascia poi
195ogni altra cura a me.
 
   Tu mi vuoi dir col pianto
 che resti in abbandono.
 No, così vil non sono;
 e meco ingrato tanto,
200no, Cesare non è. (Parte)
 
 SCENA IV
 
 MASSIMO e FULVIA
 
 FULVIA
 È tempo, o genitore,
 che uno sfogo conceda al mio rispetto.
 Tu pria d’Ezio all’affetto
 prometti la mia destra; indi m’imponi
205ch’io soffra, ch’io lusinghi
 di Cesare l’amore e m’assicuri
 che di lui non sarò. Servo al tuo cenno;
 credo alla tua promessa; e quando spero
 d’Ezio stringer la mano,
210ti sento dir che lo sperarlo è vano.
 MASSIMO
 Io d’ingannarti, o figlia,
 mai non ebbi il pensier. T’accheta; alfine
 non è il peggior de’ mali
 il talamo d’Augusto.
 FULVIA
                                       E soffrirai
215ch’abbia sposa la figlia
 chi della tua consorte
 insultò l’onestà? Così ti scordi
 l’offese dell’onor? Così t’abbagli
 del trono allo splendor?
 MASSIMO
                                             Vieni al mio seno,
220degna parte di me. Quell’odio illustre
 merita ch’io ti scopra
 ciò che dovrei celar. Sappi che ad arte
 dell’onor mio dissimulai l’offese.
 Perde l’odio palese
225il luogo alla vendetta. Ora è vicina;
 eseguirla dobbiam. Sposa al tiranno
 tu puoi svenarlo o almeno
 agio puoi darmi a trapassargli il seno.
 FULVIA
 Che sento! E con qual fronte
230posso a Cesare offrirmi
 coll’idea di tradirlo? Il reo disegno
 mi leggerebbe in faccia. a’ gran delitti
 è compagno il timor. L’alma ripiena
 tutta della sua colpa
235teme sé stessa. È qualche volta il reo
 felice sì, non mai sicuro. E poi
 vindice di sua morte
 il popolo saria.
 MASSIMO
                              L’odia ciascuno;
 vano è il timor.
 FULVIA
                               T’inganni; il volgo insano
240quel tiranno talora,
 che vivente abborrisce, estinto adora.
 MASSIMO
 Tu l’odio mi rammenti e poi dimostri
 quell’istessa freddezza
 che disapprovi in me!
 FULVIA
                                           Signor, perdona
245se libera ti parlo. Un tradimento
 io non consiglio allora
 che una viltà condanno.
 MASSIMO
                                              Io ti credea,
 Fulvia, più saggia e men soggetta a questi
 di colpa e di virtù lacci servili,
250utili all’alme vili,
 inutili alle grandi.
 FULVIA
                                    Ah! Non son questi
 que’ semi di virtù che in me versasti
 da’ miei primi vagiti infino ad ora.
 M’inganni adesso o m’ingannasti allora?
 MASSIMO
255Ogni diversa etade
 vuol massime diverse; altro a’ fanciulli,
 altro agli adulti è d’insegnar permesso;
 allora io t’ingannai.
 FULVIA
                                      M’inganni adesso.
 Che l’odio della colpa,
260che l’amor di virtù nasce con noi,
 che da’ principi suoi
 l’alma ha l’idea di ciò che nuoce o giova,
 mel dicesti, io lo sento, ognun lo prova.
 E se vuoi dirmi il ver, tu stesso, o padre,
265quando togliermi tenti
 l’orror d’un tradimento, orror ne senti.
 Ah! Se cara io ti sono,
 pensa alla gloria tua, pensa che vai...
 MASSIMO
 Taci, importuna, io t’ho sofferta assai.
270Non dar consigli o consigliar se brami,
 le tue pari consiglia.
 Rammenta ch’io son padre e tu sei figlia.
 FULVIA
 
    Caro padre, a me non dei
 rammentar che padre sei;
275io lo so; ma in questi accenti
 non ritrovo il genitor.
 
    Non son io chi ti consiglia;
 è il rispetto d’un regnante,
 è l’affetto d’una figlia,
280è il rimorso del tuo cor. (Parte)
 
 SCENA V
 
 MASSIMO solo
 
 MASSIMO
 Che sventura è la mia! Così ripiena
 di malvagi è la terra, e quando poi
 un malvagio vogl’io, son tutti eroi.
 Un oltraggiato amore
285d’Ezio gli sdegni ad irritar non basta.
 La figlia mi contrasta. Eh di riguardi
 tempo non è. Precipitare omai
 il colpo converrà. Troppo parlai.
 Pria che sorga l’aurora,
290mora Cesare, mora. Emilio il braccio
 mi presterà. Che può avvenirne? O cade
 Valentiniano estinto; e pago io sono;
 o resta in vita; ed io farò che sembri
 Ezio il fellon. Facile impresa. Augusto
295invido alla sua gloria,
 rivale all’amor suo, senz’opra mia
 il reo lo crederà. S’altro succede,
 io saprò dagli eventi
 prender consiglio. Intanto
300il commettersi al caso
 nell’estremo periglio
 è il consiglio miglior d’ogni consiglio.
 
    Il nocchier, che si figura
 ogni scoglio, ogni tempesta,
305non si lagni se poi resta
 un mendico pescator.
 
    Darsi in braccio ancor conviene
 qualche volta alla fortuna,
 che sovente in ciò ch’avviene
310la fortuna ha parte ancor. (Parte)
 
 SCENA VI
 
 Camere imperiali istoriate di pitture.
 
 ONORIA e VARO
 
 ONORIA
 Del vincitor ti chiedo,
 non delle sue vittorie; esse abbastanza
 note mi son. Con qual sembiante accolse
 l’applauso popolar? Serbava in volto
315la guerriera fierezza? Il suo trionfo
 gli accrebbe fasto o mansueto il rese?
 Quello narrami, o Varo, e non l’imprese.
 VARO
 Onoria, a me perdona
 se degli acquisti suoi più che di lui
320la germana d’Augusto
 curiosa io credei. Sembrano queste
 sì minute richieste
 d’amante più che di sovrana.
 ONORIA
                                                       È troppa
 questa del nostro sesso
325misera servitù. Due volte appena
 s’ode da’ labbri nostri
 un nome replicar che siamo amanti.
 Parlano tanti e tanti
 del suo valor, delle sue geste e vanno
330d’Ezio incontro al ritorno; Onoria sola
 nel soggiorno è rimasta;
 non v’accorse, nol vide; e pur non basta.
 VARO
 Un soverchio ritegno
 anche d’amore è segno.
 ONORIA
                                             Alla tua fede,
335al tuo lungo servir tollero, o Varo,
 di parlarmi così. Ma la distanza,
 ch’è dal suo grado al mio, teco dovrebbe
 difendermi abbastanza.
 VARO
                                              Ognuno ammira
 d’Ezio il valor; Roma l’adora; il mondo
340pieno è del nome suo; fino i nemici
 ne parlan con rispetto;
 ingiustizia saria negargli affetto.
 ONORIA
 Giacché tanto ti mostri
 ad Ezio amico, il suo poter non devi
345esagerar così. Cesare è troppo
 d’indole sospettosa.
 Vantandolo al germano, uffizio grato
 all’amico non rendi.
 Chi sa? Potrebbe un dì... Varo m’intendi.
 VARO
350Io, che son d’Ezio amico,
 più cauto parlerò; ma tu, se l’ami,
 mostrati, o principessa,
 meno ingegnosa in tormentar te stessa.
 
    Se un bell’ardire
355può innamorarti,
 perché arrossire?
 Perché sdegnarti
 di quello strale
 che ti piagò?
 
360   Chi si fe’ chiaro
 per tante imprese
 già grande al paro
 di te si rese,
 già della sorte
365si vendicò. (Parte)
 
 SCENA VII
 
 ONORIA sola
 
 ONORIA
 Importuna grandezza
 tiranna degli affetti, e perché mai
 ci neghi, ci contrasti
 la libertà d’un ineguale amore,
370se a difender non basti il nostro core?
 
    Quanto mai felici siete,
 innocenti pastorelle