Demofoonte, libretto, Stoccarda, Cotta, 1764

 SCENA III
 
 DIRCEA, poi TIMANTE
 
 DIRCEA
 Se 'l mio principe almeno
 quindi lungi non fosse... Oh ciel! Che miro?
 Ei viene a me!
 TIMANTE
                              Dolce consorte...
 DIRCEA
                                                              Ah taci.
95Potrebbe udirti alcun. Rammenta, o caro,
 che qui non resta in vita
 suddita sposa a regio figlio unita.
 TIMANTE
 Non temer, mia speranza. Alcun non ode;
 io ti difendo.
 DIRCEA
                           E quale amico nume
100ti rende a me?
 TIMANTE
                              Del genitore un cenno
 mi richiama dal campo
 né la cagion ne so. Ma tu, mia vita,
 m'ami ancor? Ti ritrovo
 qual ti lasciai? Pensasti a me?
 DIRCEA
                                                         Ma come
105chieder lo puoi? Puoi dubitarne?
 TIMANTE
                                                              Oh dio!
 Non dubito, ben mio, lo so che m'ami.
 Ma da quel dolce labbro
 troppo, soffrilo in pace,
 sentirlo replicar troppo mi piace.
110Ed il picciolo Olinto, il caro pegno
 de' nostri casti amori
 che fa? Cresce in bellezza?
 Ah dov'è? Sposa amata,
 guidami a lui; fa' ch'io lo vegga.
 DIRCEA
                                                            Affrena,
115signor, per ora il violento affetto.
 In custodita parte
 egli vive celato e andarne a lui
 non è sempre sicuro. Oh quanta pena
 costa il nostro segreto!
 TIMANTE
                                           Ormai son stanco
120di finger più, di tremar sempre. Io voglio
 cercare oggi una via
 d'uscir di tante angustie.
 DIRCEA
                                                Oggi sovrasta
 altra angustia maggiore. Il giorno è questo
 dell'annuo sacrificio. Il nome mio
125sarà esposto alla sorte. Il re lo vuole;
 s'oppone il padre; e della lor contesa
 temo più che del resto.
 TIMANTE
                                            È noto forse
 al padre tuo che sei mia sposa?
 DIRCEA
                                                           Il cielo
 nol voglia mai. Più non vivrei.
 TIMANTE
                                                         M'ascolta.
130Proporrò che di nuovo
 si consulti l'oracolo. Acquistiamo
 tempo a pensar.
 DIRCEA
                                 Questo è già fatto.
 TIMANTE
                                                                    E come
 rispose?
 DIRCEA
                   Oscuro e breve.
 «Con voi del ciel si placherà lo sdegno,
135quando noto a sé stesso
 fia l'innocente usurpator d'un regno».
 TIMANTE
 Che tenebre son queste!
 DIRCEA
                                               E se dall'urna
 esce il mio nome, io che farò? La morte
 mio spavento non è; Dircea saprebbe
140per la patria morir. Ma Febo chiede
 d'una vergine il sangue. Io moglie e madre
 come accostarmi all'ara? O parli, o taccia
 colpevole mi rendo;
 il ciel se taccio, il re se parlo offendo.
 TIMANTE
145Sposa, ne' gran perigli
 gran coraggio bisogna. Al re conviene
 scoprir l'arcano.
 DIRCEA
                                E la funesta legge
 che a morir mi condanna?
 TIMANTE
                                                   Un re la scrisse,
 può rivocarla un re. Benché severo
150Demofoonte è padre ed io son figlio.
 Qual forza han questi nomi
 io lo so, tu lo sai. Non torno alfine
 senza merito a lui. La Scizia oppressa,
 il soggiogato Fasi
155son mie conquiste; e qualche cosa il padre
 può fare anche per me. Se ciò non basta
 saprò dinanzi a lui
 piangere, supplicar, piegarmi al suolo,
 abbracciargli le piante,
160domandargli pietà.
 DIRCEA
                                      Dubito... Oh dio!
 TIMANTE
 Non dubitar, Dircea. Lascia la cura
 a me del tuo destin. Va'. Per tua pace
 ti stia nell'alma impresso
 che a te penso, cor mio, più che a me stesso.
 DIRCEA
 
165   In te spero, o sposo amato,
 fido a te la sorte mia;
 e per te, qualunque sia,
 sempre cara a me sarà.
 
    Purché a me nel morir mio
170il piacer non sia negato
 di vantar che tua son io,
 il morir mi piacerà. (Parte)