Didone abbandonata, libretto, Stoccarda, Cotta, 1763

 SCENA VIII
 
 SELENE ed ENEA
 
 ENEA
 Allor che Araspe a provocar mi venne,
760del suo signor sostenne
 le ragioni con me. La sua virtude
 se condannar pretendi,
 troppo quel core ingiustamente offendi.
 SELENE
 Sia qual ei vuole Araspe, or non è tempo
765di favellar di lui; brama Didone
 teco parlar.
 ENEA
                        Poc'anzi
 dal suo real soggiorno io trassi il piede.
 Se di nuovo mi chiede
 ch'io resti in quest'arena,
770invan s'accrescerà la nostra pena.
 SELENE
 Come fra tanti affanni,
 cor mio, chi t'ama abbandonar potrai?
 ENEA
 Selene, a me cor mio?
 SELENE
 È Didone che parla e non son io.
 ENEA
775Se per la tua germana
 così pietosa sei,
 non curar più di me, ritorna a lei.
 Dille che si consoli,
 che ceda al fato e rassereni il ciglio.
 SELENE
780Ah no! Cangia, mio ben, cangia consiglio.
 ENEA
 Tu mi chiami tuo bene!
 SELENE
 È Didone che parla e non Selene.
 Vieni e l'ascolta. È l'unico conforto
 ch'ella implora da te.
 ENEA
                                         D'un core amante
785quest'è il solito inganno;
 va cercando conforto e trova affanno.
 
    Ah non sai, bella Selene,
 quanto è barbaro martire
 il vederla, oh dio! morire
790e doverla, oh dio! lasciar.
 
    Come mai dell'idol mio
 come udrò l'estremo addio,
 s'io mi sento in sol pensarlo
 tutta l'alma lacerar? (Parte)