Didone abbandonata, libretto, Roma, de’ Rossi, 1747

                              (Certo ei scoperse il nodo
 che mi stringe a Dircea).
 DEMOFOONTE
                                                Parlar non osi;
 e a compiacerti appunto
 il tuo mi persuade
 rispettoso silenzio. Io lo confesso,
205dubitai su la scelta; anzi mi spiacque.
 L’acconsentire al nodo
 mi pareva viltà. Gli odi del padre
 abborria nella figlia. Alfin prevalse
 il desio di vederti
210felice, o prence.
 TIMANTE
                                (Il dubitarne è vano).
 DEMOFOONTE
 A paragon di questo
 è lieve ogni riguardo.
 TIMANTE
                                          Amato padre,
 nuova vita or mi dai. Volo alla sposa
 per condurla al tuo piè.
 DEMOFOONTE
                                             Ferma. Cherinto,
215il tuo minor germano
 la condurrà.
 TIMANTE
                         Che inaspettata è questa
 felicità!
 DEMOFOONTE
                  V’è per mio cenno al porto
 chi ne attende l’arrivo.
 TIMANTE
                                            Al porto!
 DEMOFOONTE
                                                               E quando
 vegga apparir la sospirata nave
220avvertiti sarem.
 TIMANTE
                                Qual nave?
 DEMOFOONTE
                                                       Quella
 che la real Creusa
 conduce alle tue nozze.
 TIMANTE
                                            (Oh dei!)
 DEMOFOONTE
                                                                Ti sembra
 strano, lo so. Gli ereditari sdegni
 de’ suoi, degli avi nostri un simil nodo
225non facevan sperar. Ma in dote alfine
 ella ti porta un regno. Unica prole
 è del cadente re.
 TIMANTE
                                 Signor... Credei...
 (Oh error funesto!)
 DEMOFOONTE
                                      Una consorte altrove
 che suddita non sia per te non trovo.
 TIMANTE
230O suddita o sovrana
 che importa, o padre?
 DEMOFOONTE
                                           Ah no; troppo degli avi
 ne arrossirebbon l’ombre. È lor la legge
 che condanna a morir sposa vassalla
 unita al real germe; e finch’io viva,
235saronne il più severo
 rigido esecutor.
 TIMANTE
                                Ma questa legge...
 ADRASTO
 Signor, giungono in porto
 le frigie navi.
 DEMOFOONTE
                            Ad incontrar la sposa
 vola, o Timante.
 TIMANTE
                                Io?
 DEMOFOONTE
                                         Sì. Con te verrei
240ma un funesto dover mi chiama al tempio.
 TIMANTE
 Ferma, senti, signor.
 DEMOFOONTE
                                         Parla. Che brami?
 TIMANTE
 Confessarti... (Che fo?) Chiederti... (Oh dio!
 Che angustia è questa!) Il sagrificio, o padre,
 la legge... la consorte...
245(Oh legge! Oh sposa! Oh sagrificio! Oh sorte!)
 DEMOFOONTE
 Principe, il nodo è stretto, io l’ho promesso.
 E non ci resta ormai
 più luogo a pentimento o alcun consiglio.
 La fé paterna ora sostenghi il figlio (Parte con Adrasto).
 
 SCENA V
 
 TIMANTE solo
 
 TIMANTE
250Ma che vi fece, o stelle,
 la povera Dircea che tante unite
 sventure contro lei! Voi che inspiraste
 i casti affetti alle nostr’alme, voi
 che al pudico imeneo foste presenti,
255difendetela, o numi; io mi confondo.
 M’oppresse il colpo a segno
 che il cor mancommi e si smarrì l’ingegno.
 
    Sperai vicino il lido;
 credei calmato il vento;
260ma trasportar mi sento
 fra le tempeste ancor.
 
    E da uno scoglio infido
 mentre salvar mi voglio,
 urto in un altro scoglio
265del primo assai peggior. (Parte)
 
 SCENA VI
 
 Porto di mare festivamente adornato per l’arrivo della principessa di Frigia. Vista di molte navi, dalla più magnifica delle quali al suono di vari stromenti barbari, preceduti da numeroso corteggio sbarcano a terra.
 
 CREUSA e CHERINTO
 
 CREUSA
 Ma che t’affanna, o prence?
 Perché mesto così? Pensi, sospiri,
 taci, mi guardi; e se a parlar t’astringo
 con rimproveri amici,
270molto a dir ti prepari e nulla dici.
 Al talamo le spose
 in sì lugubre aspetto
 s’accompagnan fra voi? Per le mie nozze
 qual augurio è mai questo?
 CHERINTO
275Se nulla di funesto
 presagisce il mio duol, tutto si sfoghi,
 o bella principessa,
 tutto sopra di me. Poco i miei mali
 accresceran le stelle. Io de’ viventi
280già sono il più infelice.
 CREUSA
                                            E questo arcano
 non può svelarsi a me? Vaglion sì poco
 il mio soccorso, i miei consigli? È vero
 io son donna e sarebbe
 mal sicuro il segreto. Andiamo, andiamo.
285Taci pur; n’hai ragion.
 CHERINTO
                                            Fermati. Oh numi!
 Parlerò; non sdegnarti. Io non ho pace;
 tu me la togli; il tuo bel volto adoro;
 so che l’adoro invano;
 e mi sento morir. Questo è l’arcano.
 CREUSA
290Come! Che ardir!
 CHERINTO
                                   Nol dissi
 che sdegnar ti farei?
 CREUSA
                                        Sperai, Cherinto,
 più rispetto da te.
 CHERINTO
                                    Colpa d’amore...
 CREUSA
 Taci, taci. Non più. (Volendo partire)
 CHERINTO
                                      Ma giacché a forza
 tu volesti o Creusa
295il delitto ascoltar, senti la scusa.
 CREUSA
 Che dir potrai?
 CHERINTO
                               Che di pietà son degno,
 s’ardo per te. Che se l’amarti è colpa,
 Demofoonte è il reo. Doveva il padre
 per condurti a Timante
300altri sceglier che me. Tu bella sei,
 cieco io non son. Ti vidi,
 t’ammirai, mi piacesti. A te vicino
 ogni dì mi trovai. E mille volte
 a te spiegar credei
305gli affetti del german, spiegando i miei.
 CREUSA
 (Ah me n’avvidi). Un tale ardir mi giunge
 nuovo così che instupidisco.
 CHERINTO
                                                     E pure
 talor mi lusingai...
 CREUSA
                                    Orsù, Cherinto,
 della mia tolleranza
310cominci ad abusar. Mai più d’amore
 guarda di non parlarmi.
 CHERINTO
                                               Ingrata!... Oh dio! (In atto di partire)
 CREUSA
 Ma dove, dove corri. E chi finora
 t’impose di partir?
 CHERINTO
                                      Comprendo assai
 anche quel che non dici.
 CREUSA
                                               Ah prence, ah quanto
315mal mi conosci. Io da quel punto... (Oh numi!)
 CHERINTO
 Termina i detti tuoi.
 CREUSA
 Da quel punto... (Ah che fo?) Parti, se vuoi.
 CHERINTO
 Barbara partirò; ma forse... Oh stelle!
 Ecco il german.
 
 SCENA VII
 
 TIMANTE frettoloso e detti
 
 TIMANTE
                               Dimmi, Cherinto. È questa
320la frigia principessa?
 CHERINTO
                                         Appunto.
 TIMANTE
                                                             Io deggio
 seco parlar. Per un momento solo
 da noi ti scosta.
 CHERINTO
                               Ubbidirò. (Che pena!)
 CREUSA
 Sposo, signor.
 TIMANTE
                             Donna real, noi siamo
 in gran periglio entrambi. Il tuo decoro,
325la vita mia tu sola
 puoi difender, se vuoi.
 CREUSA
                                            Che avvenne?
 TIMANTE
                                                                        I nostri
 genitori fra noi strinsero un nodo
 che forse a te dispiace,
 ch’io non richiesi. I pregi tuoi reali
330sarian degni d’un nume
 non che di me; ma il mio destin non vuole
 ch’io possa esserti sposo. Un vi si oppone
 invincibil riparo. Il padre mio
 nol sa, né posso dirlo. A te conviene
335prevenir un rifiuto. In vece mia
 va’, rifiutami tu. Di’ ch’io ti spiaccio;
 aggrava, io tel perdono,
 i demeriti miei; sprezzami e salva
 per questa via, che il mio dover t’addita,
340l’onor tuo, la mia pace e la mia vita.
 CREUSA
 Come!
 TIMANTE
                Teco io non posso
 trattenermi di più. Prence alla reggia
 sia tua cura il condurla. (Partendo)
 CREUSA
                                              Ah dimmi almeno...
 TIMANTE
 Dissi tutto il cor mio.
345Né più dirti saprei. Pensaci. Addio. (Parte)
 
 SCENA VIII
 
 CREUSA e CHERINTO
 
 CREUSA
 Numi! A Creusa? Alla reale erede
 dello scettro di Frigia un tale oltraggio?
 Cherinto, hai cuor?
 CHERINTO
                                      L’avrei,
 se tu non mel toglievi.
 CREUSA
                                           Ah l’onor mio
350vendica tu, se m’ami. Il cor, la mano,
 il talamo, lo scettro,
 quanto possiedo è tuo. Limite alcuno
 non pongo al premio.
 CHERINTO
                                          E che vorresti?
 CREUSA
                                                                        Il sangue
 dell’audace Timante.
 CHERINTO
355Del mio german!
 CREUSA
                                  Che! Impallidisci? Ah vile.
 Va’. Troverò chi voglia
 meritar l’amor mio.
 CHERINTO
                                       Ma principessa...
 CREUSA
 Non più. Lo so; siete d’accordo entrambi
 scellerati a tradirmi.
 CHERINTO
                                        Io? Come? E credi
360così dunque il mio amor poco sincero?
 CREUSA
 Del tuo amor mi vergogno o falso o vero.
 
    Non curo l’affetto
 d’un timido amante
 che serba nel petto
365sì poco valor.
 
    Che trema, se deve
 far uso del brando,
 ch’è audace sol quando
 si parla d’amor. (Parte)
 
 SCENA IX
 
 CHERINTO solo
 
 CHERINTO
370Oh dei perché tanto furor! Che mai
 l’avrà detto il german! Voler ch’io stesso
 nelle fraterne vene... Ah che in pensarlo
 gelo d’orror. Ma con qual fasto il disse!
 Con qual fierezza! E pur quel fasto e quella
375sua fierezza m’alletta. In essa io trovo
 un non so che di grande
 che in mezzo al suo furore
 stupir mi fa, mi fa languir d’amore.
 
    Il suo leggiadro viso
380non perde mai beltà,
 bello nella pietà,
 bello è nell’ira.
 
    Quand’apre i labbri al riso,
 parmi la dea del mar;
385e Pallade mi par,
 quando s’adira. (Parte)
 
 SCENA X
 
 MATUSIO esce furioso con DIRCEA per mano
 
 DIRCEA
 Dove, dove o signor?
 MATUSIO
                                         Nel più deserto
 sen della Libia, alle foreste ircane,
 fra le scitiche rupi, o in qualche ignota,
390se alcuna il mar ne serra,
 separata dal mondo ultima terra.
 DIRCEA
 (Ah scoprì l’imeneo! Son morta). Oh dio!
 Signor, pietà.
 MATUSIO
                            Non v’è pietà, né fede.
 Tutto è perduto.
 DIRCEA
                                 Ecco al tuo piè...
 MATUSIO
                                                                 Che fai?
 DIRCEA
395Io voglio pianger tanto...
 MATUSIO
 Il tuo caso domanda altro che pianto.
 DIRCEA
 Sappi...
 MATUSIO
                  Attendimi. Un legno
 volo a cercar che ne trasporti altrove. (Parte)
 
 SCENA XI
 
 DIRCEA e poi TIMANTE
 
 DIRCEA
 Dove, misera, ah dove
400vuol condurmi a morir? Figlio innocente,
 adorato consorte, oh dei, che pena
 partir senza vedervi.
 TIMANTE
                                         Alfin ti trovo,
 Dircea mia vita.
 DIRCEA
                                 Ah caro sposo, addio
 e addio per sempre. Al tuo paterno amore
405raccomando il mio figlio;
 abbraccialo per me; bacialo e tutta
 narragli, quando sia
 capace di pietà, la sorte mia.
 TIMANTE
 Sposa che dici? Ah nelle vene il sangue
410gelar mi fai.
 DIRCEA
                          Certo scoperse il padre
 il nostro arcano. Ebro è di sdegno e vuole
 quindi lungi condurmi. Io lo conosco,
 per me non v’è più speme.
 TIMANTE
                                                   Eh rassicura
 lo smarrito tuo cor, sposa diletta,
415al mio fianco tu sei.
 
 SCENA XII
 
 MATUSIO torna frettoloso e detti
 
 MATUSIO
                                       Dircea, t’affretta.
 TIMANTE
 Dircea non partirà.
 MATUSIO
                                      Chi l’impedisce?
 TIMANTE
 Io.
 MATUSIO
         Come!
 DIRCEA
                        Aimè!
 MATUSIO
                                      Difenderò col ferro
 la paterna ragion. (Snuda la spada)
 TIMANTE
                                    Col ferro anch’io
 la mia difenderò. (Fa lo stesso)
 DIRCEA
                                    Prence, che fai?
420Fermati, o genitore. (Si frappone)
 MATUSIO
                                        Empio! Impedirmi
 che al crudel sacrificio un’innocente
 vergine io tolga?
 DIRCEA
                                 (Oh dei!)
 TIMANTE
                                                     Ma dunque...
 DIRCEA
                                                                                (Ah taci. (Piano a Timante fingendo trattenerlo)
 Nulla sa; m’ingannai).
 MATUSIO
                                            Volerla oppressa!
 DIRCEA
 (Io quasi per timor tradii me stessa).
 TIMANTE
425Signor perdona. Ecco l’error. Ti vidi
 verso lei che piangea correr sdegnato;
 tempo a pensar non ebbi; opra pietosa
 il salvarla credei dal tuo furore.
 MATUSIO
 Dunque la nostra fuga
430non impedir. La vittima, se resta,
 oggi sarà Dircea.
 DIRCEA
                                  Stelle!
 TIMANTE
                                                Dall’urna
 forse il suo nome uscì?
 MATUSIO
                                            No; ma l’ingiusto
 tuo padre vuol quell’innocente uccisa,
 senza il voto del caso.
 TIMANTE
                                         E perché tanto
435sdegno con lei?
 MATUSIO
                               Per punir me che volli
 impedir che alla sorte
 fosse esposta Dircea, perché produssi
 l’esempio suo, perché l’amor paterno
 mi fe’ scordar d’esser vassallo.
 DIRCEA
                                                         Oh dio!
440Ogni cosa congiura a danno mio.
 TIMANTE
 Matusio, non temer. Barbaro tanto
 il re non è. Negl’impeti improvvisi
 tutti abbaglia il furor; ma la ragione
 poi n’emenda i trascorsi.
 
 SCENA XIII
 
 ADRASTO con guardie e detti
 
 ADRASTO
                                                Olà ministri,
445custodite Dircea. (Le guardie la circondano)
 MATUSIO
                                   Nol dissi, o prence!
 TIMANTE
 Come!
 DIRCEA
                Misera me!
 TIMANTE
                                        Per qual cagione
 è Dircea prigioniera?
 ADRASTO
                                          Il re l’impone.
 Vieni. (A Dircea)
 DIRCEA
                Ah dove?
 ADRASTO
                                    Fra poco,
 sventurata, il saprai.
 DIRCEA
                                        Principe, padre,
450soccorretemi voi,
 movetevi a pietà.
 TIMANTE
                                   No, non fia vero... (In atto d’assalire)
 MATUSIO
 Non soffrirò...
 ADRASTO
                             Se v’appressate, in seno
 questo ferro le immergo. (Impugnando uno stile)
 TIMANTE
                                                 Empio!
 MATUSIO
                                                                  Inumano! (Si fermano)
 ADRASTO
 Il comando sovrano
455mi giustifica assai.
 DIRCEA
                                     Dunque...
 ADRASTO
                                                          T’affretta;
 sono vane, o Dircea, le tue querele.
 DIRCEA
 Vengo. (Incamminandosi)
 TIMANTE, MATUSIO
                 Ah barbaro. (In atto d’assalire)
 ADRASTO
                                         Olà. (In atto di ferire)
 TIMANTE, MATUSIO
                                                    Ferma crudele. (Arrestandosi)
 DIRCEA
 
    Padre!... perdona...
 
 MATUSIO
 
                                         Oh pene!
 
 DIRCEA
 
 Prence... rammenta...
 
 TIMANTE
 
                                          Oh dio!
 
 DIRCEA
 
460Giacché morir degg’io...
 (potessi almen parlar).
 
 TIMANTE
 
    No, non morrai.
 
 MATUSIO
 
                                   Che affanno!
 
 TIMANTE, MATUSIO A DUE
 
 Mi sento il cor mancar.
 
 DIRCEA
 
    Padre, al destin t’arrendi,
465modera il tuo dolor.
 
    Prence... se il ciel... m’intendi...
 (Ah mi si spezza il cor!)
 
 TIMANTE
 
    Qual crudo ciel! (Avvicinandosi a Dircea)
 
 MATUSIO
 
                                    Qual fato! (Parimenti)
 
 TIMANTE
 
 Perfido... (Staccandosi da Dircea, vedendola minacciata da Adrasto)
 
 DIRCEA
 
                     Oh dio!
 
 MATUSIO
 
                                      Spietato. (Parimenti)
 DIRCEA
 
470Tacete, oh dei, fermate
 e il reo destin lasciate
 tutto sfogarsi in me.
 
 TIMANTE, MATUSIO A DUE
 
    Ah non fia ver! Vivrai
 o morirò con te
 
 DIRCEA
 
475   Ah padre!... Ah prence... addio,
 ecco a morir m’invio,
 più da sperar non v’è. (Parte Dircea con Adrasto e le guardie)
 
 MATUSIO, TIMANTE A DUE
 
    Ah barbari, dal petto
 voi mi staccate il cor.
 
 MATUSIO
 
480   Che si tarda? Andiam...
 
 TIMANTE
 
                                                 Sì, volo
 per calmare il genitor.
 
 MATUSIO
 
    Se non cede, alfin io solo
 lo farò tremare ancor.
 
 TIMANTE, MATUSIO A DUE
 
    Così, o dei, voi proteggete
485l’innocenza e la pietà?
 Ah che troppo ingiusti siete!
 questa è troppa crudeltà.
 
 Fine dell’atto primo
 
 
 
 
 LA MORTE DI LICOMEDE
 ballo tragico
 
 
 PERSONAGGI
 
 ALCESTE regina di Tessalia
 PRINCIPESSE TESSALE
 ADMETO re di Argo
 LICOMEDE re di Sciro
 ALCIDE o ERCOLE
 FERETE padre di Admeto
 APOLLO
 AMORE
 IMENEO
 
 Seguito di Alceste, seguito di Licomede, seguito d’Ercole, donne schiave dell’isola di Sciro, venti, marinai.
 
    La musica è di nova composizione del signor Teller, musico da camera di sua altezza serenissima.
 
 Comparse: le arti, gli astri, le muse, le ore, le costellazioni, soldati al seguito di Licomede, soldati al seguito di Admeto, soldati al seguito di Ercole.
 
 
 DISTRIBUZIONE DEL BALLO
 
 ALCESTE
 (la signora Toscani)
 PRINCIPESSE TESSALE
 (le signore Asselin, D’Henneterre, Gardello)
 ADMETO
 (il signor Vestris maggiore)
 LICOMEDE
 (il signor Lépi)
 ALCIDE
 (il signor Vestris minore)
 
 Seguito di Alceste: le signore Favier, Blondeval, Toscani minore, Richieri, Durand, Adelaide, Delaître, Évrard; le signore Mercier, Sabbaty, Marcadet, Boudet, Artus, Rosine, Armény, Massu.
 
 AMORE e IMENEO
 (le signorine Delaître)
 APOLLO
 (il signor Picq)
 CAPO DEGLI SCHIAVI
 (il signor Rousseau)
 VENTI
 (il signor Picq, Dauvigni, Simonet, Léger)
 
 Donne schiave dell’isola di Sciro: le signore Chaumont, Rousseau, Aletta, Dupetit. Seguaci di Licomede: i signori Balletti, Delaître, Léger, Gardello, Picq, Regnault, Regina minore, Félix, Romulo, Valentin, Pietro, Grégoire. Seguaci d’Alcide: i signori Regina maggiore, Dauvigni, Simonet, Trancard, Favier, Duponcet, Lépi minore, Gasparo, Lefèvre, Casselli, Rousseler maggiore, Annello.
 
 SCENA PRIMA
 
 La decorazione rappresenta un antro fra dirupi.
 
    Comparisce Licomede estremamente pensoso ed agitato meditando il rapimento di Alceste. Sono con lui alcuni schiavi portando accese torce. Questo principe fa chiamare il suo Piloto, gli dà segretissime commissioni e si ritira, esprimendo l’eccesso della inquietudine sua.
 
 SCENA II
 
 Rappresenta la decorazione un colonnato che termina a un grand arco trionfale di là dal quale si vede il mare coperto di varie navi. Veggonsi i marinari affrettarsi ad ornarle di ghirlande, di festoni e bandieruole. Una quantità di schiavi comparisce occupata a decorare la piazza di tutti gli ornamenti convenevoli ad abbellire una festa.
 
    Compariscono Admeto ed Alceste accompagnati da Licomede e da Alcide, seguiti da un corteggio superbo e numeroso del pari che vien terminato da una schiera di lottatori, d’atleti e di combattenti. I principi e le principesse vanno a posarsi ai lochi lor destinati ed il popolo si schiera dietro la gran balaustrata fra le colonne.
    Comincia la festa dei giuochi olimpici e parecchie giovani tessale hanno l’incombenza della distribuzione de’ premi ai vincitori.
    Alceste, Admeto, Alcide e Licomede entrano a parte della festa, ma Licomede estremamente agitato, divorato dall’amore e dalla gelosia e tutto occupato dalla meditazione del suo progetto fa scorgere di tanto in tanto il dispetto che lo rode. Propone intanto ad Alceste di salire sopra la sua nave per godervi delle feste che le avea preparate. Ella vi si lascia condurre. Admeto ed Alcide la seguono, ma nell’istante che sono per passare il ponte questo si rompe e rovina nel mare. Invano Alceste invoca gli dei, invano stende le braccia allo sposo, Licomede fa dare al vento le vele e ben presto si perde di vista la nave.
    Admeto e Alcide s’imbarcano colle loro truppe per inseguire il rapitore. Teti sorge dal seno dell’onde per favorire la fuga di Licomede di lei fratello. Comanda questa dea agli aquiloni d’abbandonare le sotterranee loro caverne e correre a suscitare un orribil tempesta. Si scatenano i venti immediatamente e formano vortici i più terribili, si gonfia il mare e co’ suoi muggiti impaurisce i marinari. S’alzano le onde fin al cielo che oscurano dalle più dense nuvole pare che respinga i flutti coi fulmini strepitosi. Altri venti si lanciano sopra la terra e con i fossi loro distruggono e rovesciano quanto s’incontra all’impeto del lor furore.
    Le navi d’Admeto e d’Alcide sono già in procinto di naufragare, quando Eolo dio dei venti comparisce e comanda agli impetuosi suoi sudditi di rientrare ne’ profondi antri loro. Gli aquiloni si precipitano immediatamente nel mare unitamente coi vapori che ne avevano sollevati. Si rasserena il cielo, si calmano gli sdegnati flutti, i zefiri traversan l’aere ed il men rapido lor volo presagisce la calma e promette ad Alcide ed al compagno una felicissima navigazione.
 
 SCENA III
 
 Rappresenta la decorazione una camera nel palazzo di Licomede.
 
    Alceste fugge inseguita dal suo rapitore che la importuna per ridurla ad arrendersi alla di lui tenerezza. Alceste, costantemente al di lei sposo fedele, lo colma de’ più amari rimproveri. Egli se le getta a’ piedi e tenta ma invano di commoverla: agli inutili prieghi succedono le minacce. Una tale audacia sveglia tutto lo sdegno d’Alceste e la fa avventarsi sopra di lui e strappargli il pugnale dal fianco e minacciar di punirlo di tanta temerità. Licomede, vivamente offeso per tanta di lei resistenza, ordina alle guardie che l’incatenino, che gliela tolgan d’avanti e che sia trattata come se fosse schiava la più ribelle. In questo tempo s’ode rumor guerriero; Licomede atterrito si dà alla fuga strascinandosi seco Alceste che esprime tutto l’eccesso della sua contentezza per il soccorso che le arriva.
 
 SCENA IV
 
 La decorazione rappresenta le fortificazioni esterne dela città di Sciro.
 
    Compariscono Alcide ed Admeto alla testa delle lor truppe che intimando alla città di arrendersi, non han per risposta che insulti dalli assediati. Licomede dall’alto delle muraglia disfida gli assedianti mostrando loro l’incatenata Alceste. Questa vista risveglia in ogni core il furore. Il punto dell’attacco è fissato: arieti, balliste, mobili torri ed altre macchine militari sono avanzate verso le muraglia. Gli assediati si difendono col tiro delle frecce, lanciando pietre o gettando accesi bitumi per infiammare e distruggere le ostili macchine. Gli assalitori attaccano e intrepidamente si difendono. Alcuni dispongono e sostengono i loro scudi a dorso di tartaruca sopra de’ quali montano i soldati per gettarsi nella piazza; altri portano scale e tentano quest’altra strada allo stesso fine. Licomede, accorgendosi del vantagio del nemico, fa una sortita e Admeto gli fa fronte e si viene al combattimento. Nel medesimo tempo Alcide rovescia ed atterra la porta principale della città; s’apre la strada fra nemici col ferro e libera Alceste distruggendo quanto al di lui valore s’oppone. Gli arieti coi replicati urti loro rovinano le muraglia; i soldati tessali montano ferocemente la breccia, si gettano nella piazza trucidando il nemico. Admeto uccide Licomede, ma riceve da questo una ferita mortale. Una vista così funesta rompe ogni freno al furore delle truppe di Admeto. Corrono ad accender facelle e s’abbandonano interamente allo incendio ed alla strage. La città di Sciro, preda delle voraci fiamme, crolla ben presto e ruina dai fondamenti. La disperata Alceste piange l’amara vittoria ed abbandonatasi sul corpo del suo sposo tutto intriso di sangue, gli dà le più costanti testimonianze della più viva sua tenerezza e dell’amarissimo suo dolore.
 
 SCENA V
 
 La decorazione rappresenta un paese della Tessaglia.
 
    Si fa sentire una marcia guerriera che annuncia l’arrivo dei vincitori. I Tessali e le donne loro accorrono in folla per essere spettatori del trionfo del principe loro. I prigionieri incatenati sono condotti dai vincitori, altri sono carichi dei tesori di Licomede ed altri portano i vittoriosi trofei. Succede a questa comparsa lo sfortunato Admeto. Alcuni ufficiali dei vinti lo portano sopra di una bara composta d’aste, d’armi e di scudi framischiati con frondi d’alloro. Alceste tutta in lagrime gli viene accanto. Alcide vanamente si sforza di consolarla. Ferete, padre di Admeto, v’accorre ed un aspetto così orribile lo fa istupidire. Vorrebbe avanzarsi verso il figlio che gli stende la moribonda mano, ma il vacillante piede non gliel permette e privo di sentimento lascia cadersi alfine fra le braccia delle sue guardie.
    Alcide impone che venghino slontanati dagli occhi d’Alceste così dolorosi oggetti ed infatti Admeto e Ferete sono trasportati altrove. Alceste tenta di seguirli, ma viene dalle sue donne arrestata. Il dolore l’opprime e sta sul punto di soccombere al gravissimo peso delle sue disgrazie, quando sopra una luminosa nube di gloria si vede improvisamente comparire Apollo accompagnato dalle belle arti.
    Questo nume protettore di Admeto getta fra il popolo una cassetta e ritorna in cielo, ordinando ad Alceste di sottomettersi agli ordini del fato. Il seguito di Alceste spinto dalla curiosità corre a raccogliere la cassetta ed impaziente di sapere ciò che rinchiuda, la presenta ad Alceste. Ella è aperta ed ogni core s’agghiaccia, ogni viso cangia colore e fisionomia. La vista del pugnale che v’è dentro fa retrocedere i corteggiani pieni di spavento e d’orrore. Alceste con tremante mano impugna questo funesto dono, indi, fissando il guardo sopra il ferro, vi legge fremendo la seguente iscrizione: «Sarà immortale chi saprà da forte per salvare il suo re darsi la morte». Alceste allora attentamente esaminando gli sguardi di quanti la circondano, della fredda costernazione nella quale li vede, è fatta accorta di quanto può da questi sperare. Tuttavia porge fremendo questo ferro ad alcuni di que’ cortiggiani ch’ella contava tra più fedeli e questi lo prendon con pena, ma lettane appena la fatale iscrizione, lo rendono con isdegno. Alceste implora sì, ma invano un generoso soccorso e invano tenta di commovere quelle anime ingrate. Il popolo è insensibile ai di lei prieghi, è sorda ai di lei gridi la corte e le amarissimi di lei lagrime non hanno la forza d’intenerire le donne del di lei seguito. Tutti la fuggono, tutti l’abbandonano ed ella infine, in preda all’amarezza del suo dolore, si ritira esprimendo l’eccesso di quella disperazione onde si sente lacerare il core.
 
 SCENA VI
 
 La decorazione rappresenta un superbo monumento innalzato dalle arti per rendere eterna la memoria di quella persona che avrà sagrificati i suoi per conservare i giorni di Admeto.
 
    L’addolorata Alceste non trova più alcun conforto che nella sua tenerezza e non ha altra vittima da immolare che il proprio di lei core. Questa regina accompagnata dalle sue donne comparisce nel monumento, ne considera la tomba, quindi veggendo tutto il suo seguito penetrato dal dolore, fa un nuovo tentativo per ispronare qualche cor generoso alla conservazione della vita dell’adorato sposo. Una principessa tessala precipitosamente s’avanza al cospetto di Alceste, avendo pinta la disperazione e nel volto e negli atti e la annuncia che Admeto è ridotto agli ultimi istanti della sua vita. Alceste, preoccupata dalla sola idea d’un così imminente pericolo altro non risponde e non fa che immergersi il pugnale nel seno. Cade fra le braccia delle sue donne che tutte intorno a lei premurosamente s’addunano e la calano alfin nella tomba. Le principesse seguaci d’Alceste si prostrano intorno al monumento irrigandolo delle copiose lagrime loro; altre donne piene di desolazione spargono fiori e rami di cipresso sopra la tomba. Tutte alfine presso del monumento sono disposte in gruppi ed in attitudini ch’esprimono la costernazione ed il dolore. L’Imeneo e l’Amore, la Virtù, l’Amicizia, la Costanza e la Fedeltà sono l’emblematiche figure che adornan la tomba. L’immagine d’Alceste in atto di passarsi il core con un pugnale, s’alza insensibilmente sopra la tomba. L’Imeneo e l’Amore in abbandono alla disperazione spengono le faci loro. La Virtà, l’Amicizia, la Costanza e la Fedeltà vi sono caratterizzate esprimendo vivamente tutto cià che l’affanno e il dolore ponno aver di pià amaro. Quattro funeree lampade posate sopra colonne sostenute da loro piedestali ornati di figure, spandono un fosco lume sopra la tomba e sovra gli oggetti che la circondano.
 
 SCENA VII
 
    Admento improvisamente risanato dalla sua ferita viene in traccia d’Alceste, bramoso nel medesimo tempo di conoscere quel generoso mortale al quale egli è debitore de’ giorni suoi conservati: ma quale non è la sua sorpresa quanto all’entrare che fa nel monumento egli scorge le donne e le principesse seguaci d’Alceste prostrate a piè della tomba. Invano le interroga, invano dell’adorata sua Alceste richiede; tutte egualmente sepolte nel più atroce dolore non gli rendono altra risposta che raddoppiando le lagrime e i loro singulti. Admento fissando su la tomba lo sguardo, l’immagine che se gli presenta della sposa nell’atto d’aprirsi il petto con il pugnale, lo fa retroceder per lo spavento e l’orrore; tuttavia, benché con piè vacillante, verso la tomba s’avanza, alfine richiamando tutte le forze sue, dà di piglio ad una sbarra di ferro, spezza e rovescia la porta del monumento ed alla vista della tomba di Alceste, l’anima di lui a tutti gli eccessi del più vivo dolor s’abbandona. Abbraccia fremendo il freddo sasso che la cara metà di se stesso rinserra; invoca l’ombra dell’adorata sua sposa, dà di mano al suo pugnale in atto di volersi unir per sempre al dolce oggetto del suo tenero amore. Arriva Alcide frettoloso e gli trattiene il braccio già levato e lo disarma. Admeto, che detesta la luce del giorno, si dà tutto in preda al furore, s’avventa ad Alcide e lotta con esso e con quanti seguaci di lui che si vogliono opporre all’esecuzione del barbaro suo disegno. Si squarcia le vesti sul corpo ed, incapace di sopportar davantagio l’eccesso delle sue disgrazie, cade svenuto fra le braccia d’Alcide e di coloro che sono al di lui soccorso volati.
    S’oscura frattanto il cielo, i lampi fendono l’aere; stride il fulmine, crolla la tomba d’Alceste, s’apre la pietra che la copre, n’escan vapori, Alceste risorge e stando assisa stende languidamente la destra ad Admeto. Esce alfin dalla tomba e a lenti passi verso la porta del monumento s’avanza scendendone quindi con piè vacillante i gradini. Le di lei donne rimangono immobili a tale prodigio e Admeto, che in questo istante, rivedendo il giorno rivede la cara sua sposa, non sa credere la sua felicità ma non potendo alfine più dubitarne vola fra le braccia di lei, se le getta a’piedi ed esprime tutti quei sentimenti di tenerezza che possono occupare un’anima sensibile e riconoscente.
 
 SCENA VIII
 
    L’Imeneo e l’Amore escono dal monumento che in un batter d’occhio viene da leggere nuvole oscurato. Gli Amori e i Zefiri volano per l’aere.
    Imeneo ed Amore stringono con eterno nodo Alceste ed Admeto. Questi felici sposi danno altissimi segni della più viva riconoscenza loro a queste divinità e d’amicizia e di gratitudine ad Alcide. I seguaci d’Admeto, di Alceste e di Ercole esprimono l’eccessiva loro allegrezza e s’affollano a vicenda a circondar questi fortunati sposi.
 
 SCENA ULTIMA
 
 Rappresenta la decorazione il palazzo del Sole.
 
    Apollo vi si vede in mezzo allo splendore più grande della sua maestà. Gli altri, le Ore, le costellazioni, le muse e le arti gli circondano il soglio. Admeto e Alceste si prostrano umilmente a’ piedi di questo benefico nume e gli protestano divotamente l’amore, il rispetto e la riconoscenza loro. Un ballo generale termina questo spettacolo. I giuochi e i piaceri dall’Amor raggunati entrano a parte di questa festa. Apollo, Alceste, Admeto e Alcide ne accrescono la bellezza e tutti esprimono egualmente la contentezza e la loro felicità.
 
 
 ATTO SECONDO
 
 SCENA PRIMA
 
 Gabinetti.
 
 DEMOFOONTE e CREUSA
 
 DEMOFOONTE
 Chiedi pure, o Creusa. In questo giorno
 tutto farò per te. Ma non parlarmi
490a favor di Dircea.
 CREUSA
 Io non vengo per altri
 a pregarti, signor. Conosco assai
 quel che potrei sperar. Le mie preghiere
 son per me stessa.
 DEMOFOONTE
                                    E che vorresti?
 CREUSA
                                                                  In Frigia
495subito ritornar. Manca il tuo cenno
 perché possan dal porto