Ezio, libretto, Lisbona, Stamperia Reale, 1772

 SCENA XII
 
 OSMIDA e detti
 
 DIDONE
1210Osmida.
 OSMIDA
                   Arde d’intorno...
 DIDONE
 Lo so; d’Enea ti chiedo.
 Che ottenesti da Enea?
 OSMIDA
                                             Partì. Lontano
 è già da queste sponde. Io giunsi appena
 a ravvisar le fuggitive antenne.
 DIDONE
1215Ah stolta! Io stessa, io sono
 complice di sua fuga. Al primo istante
 arrestar lo dovea. Ritorna, Osmida;
 corri, vola sul lido; aduna insieme
 armi, navi, guerrieri;
1220raggiungi l’infedele,
 lacera i lini suoi, sommergi i legni;
 portami fra catene
 quel traditore avvinto;
 e, se vivo non puoi, portalo estinto.
 OSMIDA
1225Tu pensi a vendicarti e cresce intanto
 la sollecita fiamma.
 DIDONE
                                      È ver, corriamo.
 Io voglio... Ah no... Restate...
 Ma la vostra dimora...
 Io mi confondo... E non partisti ancora?
 OSMIDA
1230Eseguisco i tuoi cenni. (Parte)
 
 SCENA XIII
 
 DIDONE, SELENE, ARASPE
 
 ARASPE
                                             Al tuo periglio
 pensa, o Didone.
 SELENE
                                  E pensa
 a ripararne il danno.
 DIDONE
 Non fo poco s’io vivo in tanto affanno.
 Va’ tu, cara Selene;
1235provvedi, ordina, assisti in vece mia.
 Non lasciarmi, se m’ami, in abbandono.
 SELENE
 Ah che di te più sconsolata io sono! (Parte)
 
 SCENA XIV
 
 DIDONE ed ARASPE
 
 ARASPE
 E tu qui resti ancor? Né ti spaventa
 l’incendio che s’avanza?
 DIDONE
1240Perduta ogni speranza,
 non conosco timor. Ne’ petti umani
 il timore e la speme
 nascono in compagnia, muoiono insieme.
 ARASPE
 Il tuo scampo desio. Vederti esposta
1245a tal rischio mi spiace.
 DIDONE
 Araspe, per pietà lasciami in pace. (Araspe parte)
 
 SCENA XV
 
 DIDONE, poi OSMIDA
 
 DIDONE
 I miei casi infelici
 favolose memorie un dì saranno;
 e forse diverranno
1250soggetti miserabili e dolenti
 alle tragiche scene i miei tormenti.
 OSMIDA
 È perduta ogni speme.
 DIDONE
 Così presto ritorni?
 OSMIDA
                                       Invano, oh dio!
 tentai passar dal tuo soggiorno al lido;
1255tutta del moro infido
 il minaccioso stuol Cartago inonda.
 Fra le strida e i tumulti
 agl’insulti degli empi
 son le vergini esposte, aperti i tempi;
1260né più desta pietade
 o l’immatura o la cadente etade.
 DIDONE
 Dunque alla mia ruina
 più riparo non v’è? (Si comincia a vedere il fuoco nella reggia)
 
 SCENA XVI
 
 SELENE e detti
 
 SELENE
                                       Fuggi, o regina.
 Son vinti i tuoi custodi;
1265non ci resta difesa.
 Dalla cittade accesa
 passan le fiamme alla tua reggia in seno
 e di fumo e faville è il ciel ripieno.
 DIDONE
 Andiam. Si cerchi altrove
1270per noi qualche soccorso.
 OSMIDA
                                                E come?
 SELENE
                                                                  E dove?
 DIDONE
 Venite, anime imbelli;
 se vi manca valore,
 imparate da me come si muore.
 
 SCENA XVII
 
 IARBA con guardie e detti
 
 IARBA
 Fermati.
 DIDONE
                    Oh dei!
 IARBA
                                     Dove così smarrita?
1275Forse al fedel troiano
 corri a stringer la mano?
 Va’ pure, affretta il piede,
 che al talamo reale ardon le tede.
 DIDONE
 Lo so, questo è il momento
1280delle vendette tue; sfoga il tuo sdegno
 or che ogni altro sostegno il ciel mi fura.
 IARBA
 Già ti difende Enea; tu sei sicura.
 DIDONE
 E ben sarai contento.
 Mi volesti infelice? Eccomi sola,
1285tradita, abbandonata,
 senza Enea, senza amici e senza regno.
 Debole mi volesti? Ecco Didone
 ridotta alfine a lagrimar. Non basta?
 Mi vuoi supplice ancor? Sì, de’ miei mali
1290chiedo a Iarba ristoro;
 da Iarba per pietà la morte imploro.
 IARBA
 (Cedon gli sdegni miei).
 SELENE
 (Giusti numi, pietà!)
 OSMIDA
                                          (Soccorso, o dei!)
 IARBA
 E pur, Didone, e pure
1295sì barbaro non son qual tu mi credi.
 Del tuo pianto ho pietà; meco ne vieni.
 L’offese io ti perdono
 e mia sposa ti guido al letto e al trono.
 DIDONE
 Io sposa d’un tiranno,
1300d’un empio, d’un crudel, d’un traditore
 che non sa che sia fede,
 non conosce dover, non cura onore?
 S’io fossi così vile,
 saria giusto il mio pianto.
1305No, la disgrazia mia non giunse a tanto.
 IARBA
 In sì misero stato insulti ancora!
 Olà, miei fidi, andate;
 s’accrescano le fiamme. In un momento
 si distrugga Cartago; e non vi resti
1310orma d’abitator che la calpesti. (Partono due guardie)
 SELENE
 Pietà del nostro affanno!
 IARBA
 Or potrai con ragion dirmi tiranno.
 
    Cadrà fra poco in cenere
 il tuo nascente impero
1315e ignota al passeggiero
 Cartagine sarà.
 
    Se a te del mio perdono
 meno è la morte acerba,
 non meriti, superba,
1320soccorso né pietà. (Parte)
 
 SCENA XVIII
 
 DIDONE, SELENE ed OSMIDA
 
 OSMIDA
 Cedi a Iarba, o Didone.
 SELENE
 Conserva con la tua la nostra vita.
 DIDONE
 Solo per vendicarmi
 del traditore Enea,
1325che è la prima cagion de’ mali miei,
 l’aure vitali io respirar vorrei.
 Ah! Faccia il vento almeno,
 facciano almen gli dei le mie vendette.
 E folgori e saette
1330e turbini e tempeste
 rendano l’aure e l’onde a lui funeste.
 Vada ramingo e solo; e la sua sorte
 così barbara sia
 che si riduca ad invidiar la mia.
 SELENE
1335Deh modera il tuo sdegno. Anch’io l’adoro
 e soffro il mio tormento.
 DIDONE
                                               Adori Enea!
 SELENE
 Sì, ma per tua cagione...
 DIDONE
                                               Ah disleale!
 Tu rivale al mio amor?
 SELENE
                                            Se fui rivale,
 ragion non hai...
 DIDONE
                                 Dagli occhi miei t’invola;
1340non accrescer più pene
 ad un cor disperato.
 SELENE
 (Misera donna, ove la guida il fato!) (Parte)
 
 SCENA XIX
 
 DIDONE ed OSMIDA
 
 OSMIDA
 Crescon le fiamme e tu fuggir non curi?
 DIDONE
 Mancano più nemici? Enea mi lascia,
1345trovo Selene infida,
 Iarba m’insulta e mi tradisce Osmida.
 Ma che feci, empi numi? Io non macchiai
 di vittime profane i vostri altari;
 né mai di fiamma impura
1350feci l’are fumar per vostro scherno.
 Dunque perché congiura
 tutto il ciel contro me, tutto l’inferno?
 OSMIDA
 Ah pensa a te; non irritar gli dei.
 DIDONE
 Che dei? Son nomi vani,
1355son chimere sognate o ingiusti sono.
 OSMIDA
 (Gelo a tanta empietade e l’abbandono). (Parte. Poco dopo si
 vedono cadere alcune fabbriche e dilatarsi le fiamme nella
 reggia)
 
 SCENA ULTIMA
 
 DIDONE
 
 DIDONE
 Ah che dissi, infelice! A qual eccesso
 mi trasse il mio furore?
 Oh dio, cresce l’orrore! Ovunque io miro,
1360mi vien la morte e lo spavento in faccia;
 trema la reggia e di cader minaccia.
 Selene, Osmida! Ah! Tutti,
 tutti cedeste alla mia sorte infida;
 non v’è chi mi soccorra o chi m’uccida.
 
1365   Vado... Ma dove? Oh dio!
 Resto... Ma poi... che fo?
 Dunque morir dovrò
 senza trovar pietà?
 
 E v’è tanta viltà nel petto mio?
1370No no, si mora; e l’infedele Enea
 abbia nel mio destino
 un augurio funesto al suo cammino.
 Precipiti Cartago,
 arda la reggia; e sia
1375il cenere di lei la tomba mia. (Dicendo l’ultime parole corre Didone a precipitarsi disperata e furiosa nelle ardenti ruine della reggia; e si perde fra i globi di fiamme, di faville e di fumo che si sollevano alla sua caduta. Nel tempo medesimo su l’ultimo orizzonte comincia a gonfiarsi il mare e ad avanzarsi lentamente verso la reggia, tutto adombrato al di sopra da dense nuvole e secondato dal tumulto di strepitosa sinfonia. Nell’avvicinarsi all’incendio, a proporzione della maggior resistenza del fuoco, va crescendo la violenza delle acque. Il furioso alternar dell’onde, il frangersi ed il biancheggiar di quelle nell’incontro delle opposte ruine, lo spesso fragor de’ tuoni, l’interrotto lume de’ lampi e quel continuo muggito marino, che suole accompagnar le tempeste, rappresentano l’ostinato contrasto dei due nemici elementi. Trionfando finalmente per tutto sul fuoco estinto le acque vincitrici, si rasserena improvvisamente il cielo, si dileguano le nubi, si cangia l’orrida in lieta sinfonia; e dal seno dell’onde già placate e tranquille sorge la ricca e luminosa reggia di Nettuno. Nel mezzo di quella assiso nella sua lucida conca, tirata da mostri marini e circondata da festive schiere di nereidi, di sirene e di tritoni, comparisce il nume che appoggiato al gran tridente parla nel seguente tenore)
 
 
 LICENZA
 
 NETTUNO
 Se alla discordia antica
 ritornar gli elementi, astri benigni
 del ciel d’Iberia, in questo dì vedete,
 non vi rechi stupor. Di merto eguali,
1380bella gara d’onor ci fa rivali.
 Se l’emulo Vulcano
 qui degl’incendi suoi
 fa spettacolo a voi, per qual cagione
 dovrà sì nobil peso
1385a me nume dell’acque esser conteso?
 Perché ceder dovrei? S’ei tuona in campo
 talor da’ cavi bronzi,
 dell’ira vostra esecutor fedele,
 della vostra giustizia
1390fedele ognora esecutore anch’io
 porto a’ mondi remoti
 le vostre leggi; e ne riporto i voti.
 Onde a ragion pretesi
 parte alla gloria; onde a ragion costrinsi
1395nell’illustre contesa
 a fremer le procelle in mia difesa.
 
    Tacete, o mie procelle,
 di questo soglio al piè,
 or che il rivale a me
1400cedé la palma.
 
    E dell’ibere stelle
 al fausto balenar
 tutti i regni del mar
 tornino in calma.
 
 FINE
 
 
 
 EZIO
 
 
    Dramma per musica di Artino Corasio, pastor arcade, da rappresentarsi nel famosissimo teatro Grimani di San Giovanni Grisostomo nell’autunno dell’anno MDCCXXVIII dedicato a sua eccellenza il signor conte di Harach, eccetera, eccetera, eccetera, cavagliere dell’insigne ordine del Toson d’oro, intimo consigliere attuale di stato di sua maestà cesarea cattolica, suo viceré, luogotenente e capitan generale del regno di Napoli.
    In Venezia, appresso Carlo Buonarigo, libraio in Merzeria, con licenza de’ superiori e privilegio.
 
 Eccellenza,
    sono da due stimoli efficacissimi indotto ad umiliare all’eccellenza vostra il presente drammatico componimento. L’uno per dare a tal composizione, che da celebre e famoso poeta è formata, l’ultima perfezione e splendore; e l’altro di appagare col presente mio ossequioso tributo la fervorosa mia divozione di presentarmi dinante alla distinta grandezza e nobiltà segnalata di personaggio sì grande e da per tutto ammirato. Ed invero da quel rango di onore, in cui l’invitto e sempre augusto Cesare vi ha trascelto, e l’impazienza in cui vive la bella Partenope, per godere sotto la dolcezza e giustizia del vostro comando, fanno ben chiaro al mondo tutto qual siete, grande per la nascita, illustre per i pensieri, clemente per i benefici, gentile per il costume, affabile per il tratto, generoso per il core e sopra tutt’altro giusto per l’operare. A voi dunque, eccellentissimo signore, la presente composizione rassegno, certo che vorrete ricoprirla colla vostra venerabile prottezione e generoso compatimento che sono istinti conaturali alla vostra grand’anima, protestandomi col più ossequioso impegnato dovere di vostra eccellenza umilissimo, devotissimo, obligatissimo servitore.
 
    Domenico Lalli
 
    Venezia li 20 novembre 1728
 
 
 ARGOMENTO
 
    Ezio illustre capitano delle armi imperiali sotto Valentiniano III ritornando dalla celebre vittoria de’ campi Catalaunici, dove disfece e fugò Attila re degli Unni, fu accusato ingiustamente d’infedeltà al sospettoso imperadore e dal medesimo condannato a morire.
    Autore dell’imposture contro l’innocente Ezio fu Massimo patrizio romano, il quale offeso già da Valentiniano, per aver questi tentata l’onestà della sua consorte, procurò infruttuosamente l’aiuto del suddetto capitano per uccidere l’odiato imperadore, dissimulando sempre artificiosamente il desiderio della vendetta ma conoscendo che il maggiore inciampo al suo disegno era la fedeltà di Ezio, fece crederlo reo e ne sollecitò la morte, disegnando di sollevar poi, come fece, il popolo contro Valentiniano, con accusarlo di quella ingratitudine ed ingiustizia, alla quale egli lo aveva indotto e persuaso. Tutto ciò è istorico, il resto è verisimile (Sigonio, De occidentali imperio; Prospero Aquitanio, Chronicon, eccetera).
    La scena si rappresenta in Roma.
    Le parole numi, fato, eccetera non hanno cosa alcuna di commune cogl’interni sentimenti dell’autore che si professa vero cattolico.
 
 
 MUTAZIONI DI SCENE
 
    Nell’atto primo: parte del Foro romano con trono imperiale da un lato, vista di Roma illuminata in tempo di notte con archi trionfali ed altri apparati festivi preparati per celebrare le feste decennali e per onorare il ritorno di Ezio vincitore di Attila; camere imperiali istoriate di pitture.
    Nell’atto secondo: giardini corrispondenti agli appartamenti imperiali; gallaria di statue con sedile imperiale, gran balcone aperto in prospetto, dal quale vista di Roma.
    Nell’atto terzo: atrio delle carceri con cancelli di ferro in prospetto che conducono a diverse prigioni; Campidoglio antico.
 
    La composizione della musica è del signor Nicola Porpora, maestro delle figlie del coro del pio ospitale degl’Incurabili.
 
 
 PERSONAGGI
 
 VALENTINIANO III imperadore amante di
 (il signor Domenico Gizzi)
 FULVIA figlia di Massimo patrizio romano, amante e promessa sposa di
 (la signora Lucia Facchinelli)
 EZIO generale dell’armi cesaree amante di Fulvia
 (il signor Nicola Grimaldi, kavaliere della croce di San Marco)
 ONORIA sorella di Valentiniano, amante occulta di Ezio
 (la signora Antonia Negri)
 MASSIMO patrizio romano padre di Fulvia, confidente e nemico occulto di Valentiniano
 (il signor Gioseppe Maria Boschi)
 VARO prefetto de’ pretoriani amico di Ezio
 (il signor Filippo Giorgi, virtuoso di camera di sua altezza serenissima la gran principessa di Toscana)
 
    Li balli sono d’invenzione del signor Francesco Aquilante, servitore attuale di sua altezza serenissima di Parma.
    Le scene sono invenzioni e direzioni delli signori Gioseppe e Domenico fratelli Valeriani, ingegnieri del teatro e pittori di sua altezza serenissima elettorale di Baviera.
 
 
 ATTO PRIMO
 
 SCENA PRIMA
 
  Parte del Foro romano con trono imperiale da un lato. Vista di Roma illuminata in tempo di notte con archi trionfali ed altri apparati festivi, preparati per celebrare le feste decennali e per onorare il ritorno d’Ezio vincitore di Attila.
 
 VALENTINIANO, MASSIMO e VARO con pretoriani e popolo
 
 MASSIMO
 Signor, mai con più fasto
 la prole di Quirino
 non celebrò d’ogni secondo lustro
 l’ultimo dì. Di tante faci il lume,
5l’applauso popolar turba alla notte
 l’ombra, i silenzi; e Roma
 al secolo vetusto
 più non invidia il suo felice Augusto.
 VALENTINIANO
 Godo ascoltando i voti
10che a mio favor sino alle stelle invia
 il popolo fedel, le pompe ammiro,
 attendo il vincitor, tutte cagioni
 di gioie a me. Ma la più grande è quella
 ch’io possa offrir colla mia destra in dono
15ricco di palme alla tua figlia il trono.
 MASSIMO
 Dall’umiltà del padre
 apprese Fulvia a non bramare un soglio;
 e a non sdegnarlo apprese
 dall’istessa umiltà. Cesare imponga,
20la figlia eseguirà.
 VALENTINIANO
                                  Fulvia io vorrei
 amante più, men rispettosa.
 MASSIMO
                                                      È vano
 temer che ella non ami
 quei pregi in te che l’universo ammira.
 (Il mio rispetto alla vendetta aspira).
 VARO
25Ezio si avanza. Io già le prime insegne
 veggo appressarsi.
 VALENTINIANO
                                     Il vincitor si ascolti;
 e sia Massimo a parte
 ne’ doni che mi fa la sorte amica. (Valentiniano va sul trono servito da Varo)
 MASSIMO
 (Io però non oblio l’ingiuria antica).
 
 SCENA II
 
 EZIO preceduto da istromenti bellici, schiavi ed insegne de’ vinti, seguito da’ soldati vincitori, popolo, e detti
 
 EZIO
30Signor vincemmo. Ai gelidi Trioni
 il terror de’ mortali
 fuggitivo ritorna. Il primo io sono
 che vedesse finora
 Attila impallidir. Presso a Pirene
35seco pugnammo; ivi a crudel cimento
 la barbarie e il valor vennero insieme.
 Giammai  non vide il sole
 più numerosa strage. A tante morti
 era angusto il terreno. Il sangue corse
40in torbidi torrenti.
 Le minaccie ai lamenti
 si udian confuse e fra i timori e l’ire
 erravano indistinti
 i forti, i vili, i vincitori, i vinti.
45Né gran tempo dubbiosa
 la vittoria ondeggiò, timido alfine
 fugge il tiranno e cede
 di tante ingiuste prede,
 impacci al suo fuggir, l’acquisto a noi.
50Se una prova ne vuoi
 mira le vinte schiere,
 ecco l’armi, l’insegne e le bandiere.
 VALENTINIANO
 Ezio tu non trionfi
 d’Attila sol; nel debellarlo, ancora
55vincesti i voti miei. Tu rassicuri
 su la mia fronte il vacillante alloro.
 Tu il marzial decoro
 rendesti al Tebro; e deve
 alla tua mente, alla tua destra audace
60Italia tutta e libertade e pace.
 EZIO
 L’Italia i suoi riposi
 tutta non deve a me. V’è chi gli deve
 solo al proprio valore. All’Adria in seno
 un popolo di eroi s’aduna e cangia
65in asilo di pace
 l’istabile elemento.
 Con cento ponti e cento
 le sparse isole unisce;
 colle moli impedisce
70all’ocean la libertà dell’onde.
 E intanto su le sponde
 stupido resta il pellegrin che vede
 di marmi adorne e gravi
 sorger le mura, ove ondeggiar le navi.
 VALENTINIANO
75Chi mai non sa qual sia
 d’Antenore la prole? È noto a noi
 che più saggia d’ogni altro,
 alle prime scintille
 dell’incendio crudel ch’Attila accese,
80lasciò i campi e le ville
 e in grembo al mar la libertà difese.
 So già quant’aria ingombra
 la novella cittade e volgo in mente
 qual può sperarsi adulta,
85se nascente è così.
 EZIO
                                    Cesare, io veggo
 i semi in lei delle future imprese.
 Già s’avvezza a regnar. Sudditi i mari
 temeranno i suoi cenni; argine all’ire
 sarà de’ regi e porterà felice
90con cento navi e cento
 ai tiranni dell’Asia alto spavento.
 VALENTINIANO
 Gli auguri fortunati
 secondi il ciel. Fra queste braccia intanto (Scende dal trono)
 tu del cadente impero e mio sostegno
95prendi d’amore un pegno. A te non posso
 offrir che i doni tuoi. Serbami amico
 quei doni istessi e sappi
 che fra gli acquisti miei
 il più nobile acquisto Ezio tu sei.
 
100   Se tu la reggi al volo,
 su la tarpea pendice
 l’aquila vincitrice
 sempre tornar vedrò.
 
    Breve sarà per lei
105tutto il camin del sole
 e allora i regni miei
 col ciel dividerò. (Parte con Varo e pretoriani)
 
 SCENA III
 
 EZIO, MASSIMO e poi FULVIA
 
 MASSIMO
 Ezio donasti assai
 alla gloria, al dover; qualche momento
110concedi all’amistà. Lascia ch’io stringa
 quella man vincitrice.
 EZIO
                                           Io godo amico
 nel rivederti e caro
 m’è l’amor tuo de’ miei trionfi al paro.
 Ma Fulvia ove si cela?
115Che fa? Dov’è? Quando ciascun s’affretta
 su le mie pompe ad appagar le ciglia,
 la tua figlia non viene?
 MASSIMO
                                            Ecco la figlia.
 EZIO
 Cara, di te più degno
 torna il tuo sposo e al volto tuo gran parte
120deve de’ suoi trofei. Fra l’armi e l’ire
 mi fu sprone egualmente
 e la gloria e l’amor; né vinto avrei,
 se premio ai miei sudori
 erano solo i trionfali allori.
125Ma come! Ai dolci nomi
 e di sposo e di amante
 ti veggio impallidir! Doppo la nostra
 lontananza crudel così m’accogli?
 Mi consoli così?
 FULVIA
                                (Che pena!) Io vengo...
130Signor...
 EZIO
                   Tanto rispetto
 Fulvia con me! Perché non dir «mio fido»?
 Perché «sposo» non dirmi? Ah tu non sei
 per me quella che fosti.
 FULVIA
                                             Oh dio, son quella.
 Ma... senti... Ah genitor per me favella.
 EZIO
135Massimo non tacer.
 MASSIMO
                                       Tacqui finora
 perché coi nostri mali a te non volli
 le gioie avvelenar. Si vive amico
 sotto un giogo crudele. Anche i pensieri
 imparano a servir. La tua vittoria
140Ezio ci toglie alle straniere offese,
 le domestiche accresce. Era il timore
 in qualche parte almeno
 a Cesare di freno; or che vincesti,
 i popoli dovranno
145più superbo soffrirlo e più tiranno.
 EZIO
 Io tal nol credo. Almeno
 la tirannide sua mi fu nascosa.
 Che pretende? Che vuol?
 MASSIMO
                                                 Vuol la tua sposa.
 EZIO
 La sposa mia! Massimo, Fulvia, e voi
150consentite a tradirmi?
 FULVIA
                                            Ahimè.
 MASSIMO
                                                            Qual arte?
 Qual consiglio adoprar? Vuoi che l’esponga,
 niegandola al suo trono,
 d’un tiranno al piacer? Vuoi che su l’orme
 di Virginio io rinovi
155per serbarla pudica
 l’esempio in lei della tragedia antica?
 Ah tu solo potresti
 franger i nostri ceppi,
 vendicar i tuoi torti. Arbitro sei
160del popolo e dell’armi; a Roma oppressa,
 all’amor tuo tradito
 dovresti una vendetta. Alfin tu sai
 che non si svena al cielo
 vittima più gradita
165d’un empio re.
 EZIO
                              Che dici mai! L’affanno
 vince la tua virtù. Giudice ingiusto
 delle cose è il dolor. Sono i monarchi
 arbitri della terra,
 di loro è il cielo. Ogn’altra via si tenti
170ma non l’infedeltade.
 MASSIMO
                                          Anima grande!
 al par del tuo valore
 ammiro la tua fé che più costante
 nelle offese diviene.
 (Cangiar favella e simular conviene).
 FULVIA
175Ezio così tranquillo
 la sua Fulvia abbandona ad altri in braccio?
 EZIO