Il filosofo di campagna, libretto, Barcellona, Generas, 1770

    Son fresca e son bella
 cicoria novella.
90Mangiatemi presto;
 coglietemi su.
 
    Se resto nel prato,
 radichio invecchiato,
 nessuno si degna
95raccogliermi più.
 
 DON TRITEMIO
 Senti ragazza mia,
 questa canzone ha un poco d’allegria.
 Tu sei, Lesbina bella,
 cicorietta novella;
100prima che ad invecchiar ti veda il fato,
 esser colta dovresti in mezzo al prato.
 LESBINA
 Per me v’è tempo ancora.
 Dovreste alla signora
 pensar, caro padrone.
105Or ch’è buona stagione,
 or ch’è un frutto maturo e saporito,
 non la fate invecchiar senza marito.
 DON TRITEMIO
 A lei ho già pensato;
 sposo le ho destinato e avrallo presto.
 LESBINA
110Posso saper chi sia?
 DON TRITEMIO
                                       Nardo è cotesto.
 LESBINA
 Di quella tenerina
 erbetta cittadina
 la bocca d’un villan non mi par degna.
 DON TRITEMIO
 Eh la prudenza insegna
115che ogn’erba si contenti
 d’aver qualche governo,
 purch’esposta non resti al crudo verno.
 LESBINA
 Io mi contenterei,
 pria di vederla così mal troncata,
120per la neve lasciar la mia insalata.
 DON TRITEMIO
 Tu sei un bocconcino
 per il tuo padroncino.
 LESBINA
                                          Oh oh sentite
 un’altra canzonetta ch’ho imparata
 sul proposito mio dell’insalata.
 
125   Non raccoglie le mie foglie
 vecchia mano di pastor.
 
    Voglio un bello pastorello;
 o vuo’ star nel prato ancor. (Parte)
 
 SCENA III
 
 DON TRITEMIO e poi RINALDO
 
 DON TRITEMIO
 Allegoricamente
130m’ha detto che con lei non farò niente.
 Eppure io mi lusingo
 che a forza di finezze
 tutto supererò,
 che col tempo con lei tutto farò.
135Per or d’Eugenia mia
 liberarmi mi preme. Un buon partito
 Nardo per lei sarà, ricco, riccone,
 un villano, egli è ver, ma sapientone.
 RINALDO
 (Ecco della mia bella
140il genitor felice). (Da sé in disparte)
 DON TRITEMIO
 Per la villa si dice
 che Nardo ha un buono stato
 e da tutti filosofo è chiamato. (Da sé)
 RINALDO
 (Sorte, non mi tradir). Signor.
 DON TRITEMIO
                                                          Padrone.
 RINALDO
145S’ella mi permetesse,
 le direi due parole.
 DON TRITEMIO
 Anche quattro ne ascolto e più, se vuole.
 RINALDO
 Non so se mi conosca.
 DON TRITEMIO
                                          Non mi pare.
 RINALDO
 Di me si può informare.
150Son cavaliere e sono i beni mei
 vicini ai suoi.
 DON TRITEMIO
                            Mi rallegro con lei.
 RINALDO
 Ell’ha una figlia.
 DON TRITEMIO
                                 Sì signor.
 RINALDO
                                                     Dirò...
 Se fossi degno... Troppo ardire è questo.
 Ma! Mi sprona l’amore...
 DON TRITEMIO
                                                Intendo il resto.
 RINALDO
155Dunque, signor...
 DON TRITEMIO
                                   Dunque, signor mio caro,
 per venir alle corte io vi dirò...
 RINALDO
 M’accordate la figlia?
 DON TRITEMIO
                                          Signor no.
 RINALDO
 Ahi mi sento morir!
 DON TRITEMIO
                                        Per cortesia,
 non venite a morir in casa mia.
 RINALDO
160Ma perché sì aspramente
 mi togliete alla prima ogni speranza?
 DON TRITEMIO
 Lusingarvi sarebbe una increanza.
 RINALDO
 Son cavalier.
 DON TRITEMIO
                           Benissimo.
 RINALDO
                                                  De’ beni
 ricco son quanto voi.
 DON TRITEMIO
                                        Son persuaso.
 RINALDO
165Il mio stato, i miei fondi,
 le parentele mie vi mostrerò.
 DON TRITEMIO
 Credo tutto.
 RINALDO
                         Che speri?
 DON TRITEMIO
                                               Signor no.
 RINALDO
 Ma la ragione almeno
 dite perché né men si vuol ch’io speri.
 DON TRITEMIO
170La ragion?...
 RINALDO
                          Vuo’ saper...
 DON TRITEMIO
                                                   Sì, volentieri.
 
    La mia ragione è questa...
 Mi par ragione onesta.
 La figlia mi chiedeste
 e la ragion voleste...
175La mia ragion sta qui.
 Non posso dirvi sì,
 perché vuo’ dir di no.
 
    Se non vi basta ancora,
 un’altra ne dirò;
180rispondo: «Signor no,
 perché la vuo’ così».
 E son padron di dirlo;
 la mia ragion sta qui. (Parte)
 
 SCENA IV
 
 RINALDO solo
 
 RINALDO
 Che innaspettato, oh dio!
185colpo improviso è questo?
 E sarà dunque ver ch’il mio tesoro
 meco unito non fia?
 Ah! Che il dolor questo mio core opprime!
 Oh Eugenia fedel bell’idol mio,
190se ti perdo mia vita
 tosto lungi da te morir vogl’io.
 
    Quei vezzosi amati rai
 idol mio fedel riserba;
 e quel cor che tanto amai
195anche in morte adorerò.
 
 SCENA V
 
 Campagna con casa rustica.
 
 NARDO esce di casa con una vanga accompagnato da alcuni villani
 
 NARDO
 
    Al lavoro, alla campagna,
 poi si gode, poi si magna
 con diletto e libertà.
 
    Oh che pane delicato,
200se da noi fu coltivato!
 Presto, presto a lavorare,
 a podare, a seminare;
 e doppoi si mangerà;
 del buon vin si beverà
205ed allegri si starà. (Partono i contadini, restandone uno impiegato)
 
 Vanga mia benedetta,
 mio diletto conforto e mio sostegno,
 tu sei lo scetro e questi campi il regno.
 Quivi regnò mio padre,
210l’avolo ed il bisavolo ed il tritavolo
 e fur suditi lor la zucca, il cavolo.
 Nelle città famose
 ogni generazion si cambia stato.
 Se il padre ha accumulato
215con fatica, con arte e con periglio,
 distrugge i beni suoi prodigo il figlio.
 Qui, dove non ci tiene
 il lusso, l’ambizion, la gola oppressi,
 sono gl’uomini ognor sempre gl’istessi.
220Non cambierei, lo giuro,
 col piacer delle feste, dei teatri
 zappe, trebbie, rastrei, vanghe ed aratri.
 
 SCENA VI
 
 LA LENA ed il sudetto
 
 LA LENA
 Eccolo qui; la vanga
 è tutto il suo diletto. (Da sé)
225Se foste un poveretto, (A Nardo)
 compatir vi vorrei; ma siete ricco,
 avete dei poderi e dei contanti;
 la fatica lasciate ai lavoranti.
 NARDO
 Cara nipote mia,
230più tosto che parlar come una sciocca,
 fareste meglio maneggiar la rocca.
 LA LENA
 Colla rocca, col fuso e coi famigli
 stanca son d’annoiarmi;
 voi dovreste pensare a maritarmi.
 NARDO
235Sì, volentieri. Presto
 comparisca un marito. Eccolo qui. (Accenna un villano)
 Vuoi sposar mia nipote? Signorsì.
 Eccolo io ve lo do.
 Lo volete? Vi piace? (Alla Lena)
 LA LENA
                                        Signor no.
 NARDO
240Va’ a veder se passasse
 a caso per la strada
 qualche affamato con parucca e spada. (Al villano, il quale parte ridendo)
 Vedi? Ride Mingone e ti corbella.
 Povera vannarella,
245tu sposaresti un conte od un marchese,
 perché in meno d’un mese,
 strappazzata la dote e la fanciulla,
 la nobiltà ti riducesse al nulla.
 LA LENA
 Io non voglio un signor né un contadino.
250Mi basta un cittadino
 che stia bene...
 NARDO
                              Di che?
 LA LENA
                                               Ch’abbia un’entrata,
 qual a mediocre stato si conviene.
 Che sia discreto e che mi voglia bene.
 NARDO
 Lena, pretendi assai.
255Se lo brami così, nol troverai.
 Per lo più i cittadini
 hanno pocchi quatrini e troppe voglie
 e non usano molto amar la moglie.
 Per pratica commune
260nelle cittadi usata,
 è maggiore l’uscita dell’entrata.
 LA LENA
 Il signor don Tritemio
 è cittadino, eppure
 così non usa?
 NARDO
                            È vero,
265ma in villa se ne sta,
 perché nella città vede il pericolo
 d’esser vizioso o diventar ridicolo.
 LA LENA
 Della figliuola sua
 v’han proposte le nozze, io ben lo so.
 NARDO
270Ed io la sposerò,
 perché la dote e il padre suo mi piace,
 con patto che non sia
 gonfia di vento e piena d’albagia.
 LA LENA
 L’avete ancor veduta?
 NARDO
275Ieri solo è venuta;
 oggi la vederò.
 LA LENA
                              Dunque chi sa
 s’ella vi piacerà.
 NARDO
                                Basta non abbia
 visibili magagne;
 sono le donne poi tutte compagne.
 LA LENA
280Ammogliatevi presto signor zio
 ma voglio poscia maritarmi anch’io.
 
    Son zittellina,
 son modestina,
 non mi dovreste
285se senno aveste
 così trattar.
 
    Sento nel core
 un certo ardore,
 un pizzicore
290non posso dirlo...
 Non so spiegar.
 
 SCENA VII
 
 NARDO solo
 
 NARDO
 Sì signora, non dubiti,
 che contenta sarà.
 La si mariterà la poverina;
295ma la vuo’ maritar da contadina.
 Ecco; il mondo è così. Niuno è contento
 del grado in cui si trova
 e lo stato cambiare ognun si prova.
 Vorrebbe il contadino
300diventar cittadino; il cittadino
 cerca nobilitarsi
 ed il nobile ancor vorrebbe alzarsi.
 D’un gradino alla volta
 qualchedun si contenta;
305alcuno due o tre ne fa in un salto
 ma lo sbalzo è peggior quanto è più alto.
 
    Cosa val la nobiltà
 senza il lustro del contante.
 Il signore ed il mercante
310non si stima, se non ha.
 Non ho il capo cincinato,
 non vuo liscio né stuccato
 ma mi faccio rispettar,
 se la quaglia fo cantar.
 
315   Mi fanno ridere
 questi zerbini
 senza quattrini
 quando pretendono
 farsi stimar.
320Non se ne avvedono,
 si fan burlar. (Parte)
 
 SCENA VIII
 
 Salotto in casa di don Tritemio con varie porte.
 
 EUGENIA e RINALDO
 
 EUGENIA
 Deh se mi amate, o caro,
 ite lontan da queste soglie. Oh dio!
 Temo che ci sorprenda il padre mio.
 RINALDO