Il filosofo di campagna, libretto, Siena, Bonetti, 1756

83ano no non può chi può
 darmi la morte, no,
85qualor ne gode il cor
 l’aria gioconda.
 
    Ma s’egli vuol così,
 mi ucciderà, sì sì.
 Ohimè s’egli da me
90fia che s’asconda.
 
 SAN MICHELE
 Ai dolcissimi affanni
 suda il caro Giuseppe...
 MARIA SANTISSIMA
 Come ingemma vezzosa
 l’alba de’ regni Eoi l’auree contrade,
95sì sparge perle un sì bel dì, che cade.
 SAN GIUSEPPE
 Sei tu aurora, o Maria,
 è Giesù vero sole, Espero io sono
 che i suoi rai, che i tuoi rai ricevo in dono.
 MARIA SANTISSIMA
 Vero sol, vero lume è il caro Figlio.
100Chiaro eterno splendore,
 balsamo è il tuo sudore,
 che diede ogni momento
 al divino suo ardor dolce alimento.
 Ed or puoi tu languire?
105Puoi morire, o Giuseppe, e teco è unita
 la vita d’ogni cor, ch’a sé t’invita!
 Muori sì, ma gioisci,
 e fiano al mio Signore
 i mancanti respiri inni d’onore.
 
110   Pellegrin, ch’in folto orror
 tra la speme e tra ’l timor
 sospettoso intorno va,
 vede già che mezz’ascoso
 d’un barlume brilla il ciel.
 
115   Quanto allor, ch’appena uscì,
 gode ai rai del nuovo dì,
 e risponde al suo cantar
 lieto il mar da le sue sponde,
 la dolce aura e ’l vago augel.
 
 SAN GIUSEPPE
120Sposa...
 MARIA SANTISSIMA
                  Che brami, o sposo?
 SAN GIUSEPPE
                                                         Il caro Dio
 mi fe’ delle tue gioie ognor consorte;
 teco il vidi bambino,
 teco godei trovando il mio tesoro,
 né vuol, che incontri io teco il tuo martoro.
125Là nel Calvario monte
 viva per più dolore
 miracolo del duolo un dì sarai,
 ed io tra le delizie or chiudo i rai!
 Vorrei... ma s’ei non vuole
130adoro il suo voler, e seco io voglio
 tua la gloria del pianto e del cordoglio.
 
    Il Signor vuol ch’a me solo
 cara morte dia l’amore,
 e la nieghi a te ’l dolor.
 
 MARIA SANTISSIMA
 
135   Egli vuol che a te dia solo
 morte placida l’amore,
 e la nieghi a me il dolor.
 
 SAN GIUSEPPE
 
    Che bontà!
 
 MARIA SANTISSIMA
 
                           Che dir poss’io?
 
 SAN GIUSEPPE
 
 Arde, oh Dio, tra fiamme il cor.
 
 MARIA SANTISSIMA
 
140Non è mio questo mio cor.
 
 MARIA SANTISSIMA
 
    Ma ’l dolore
 
 SAN GIUSEPPE
 
                            ed il consuolo
 
 A DUE
 
 ugualmente
 
 MARIA SANTISSIMA
 
                         all’alma,
 
 SAN GIUSEPPE
 
                                           al core
 
 A DUE
 
 rende amabile il Signor.
 
 SAN MICHELE
 Ad accenti sì bei muto son io.
 SAN GIUSEPPE
145O sposa, un picciol rio
 se alfin ne giunge ad imboccarsi al mare,
 AMOR DIVINO
 già non più quello in quel gran seno appare.
 SAN GIUSEPPE
 Tra l’incendio infinito
 d’un inesausto ardore
150non si discerne, no, questo mio core.
 AMOR DIVINO
 Un abisso di luce
 il confonde, l’abbaglia...
 SAN MICHELE
                                              O cari incendi!
 MARIA SANTISSIMA
 Fiamme adorate e belle!
 SAN GIUSEPPE
 Ed ecco incenerito è il cor tra quelle.
 
155   Dolce auretta che alletta, che piace,
 più vorace fa un debole ardor.
 
    Sì mi accende, mi rende più amante
 il sembiante del caro Signor.
 
 Fine della prima parte
 
 
 PARTE SECONDA
 
 
 SAN GIUSEPPE
 Vegg’io la Morte, o sposa...
 AMOR DIVINO
160La Morte sì, che rispettosa mira
 agonizzar in estasi d’amore
 Fenice, che rinasce, e che non more!
 
    E può rinascere
 chi non morì?
165Se non fia spento,
 si può riaccendere,
 acceso ardore?
 Questo è un portento
 del mio valor.
 
170   Così Maria
 è madre e vergine,
 difeso e illeso
 il suo candore:
 questi impossibili
175può farli amor.
 
 SAN GIUSEPPE
 Sposa vegg’io la Morte,
 che de’ giorni dell’uomo è notte oscura,
 la vedo invidiosa
 emular quella notte,
180in cui nacque bambino
 il vero sol divino,
 e tu ne fosti, tu, l’intatta aurora.
 AMOR DIVINO
 Quella notte del dì più bella assai.
 SAN GIUSEPPE
 Così di mille rai,
185cinta l’orride chiome
 questa che già di morte appena ha ’l nome,
 placidissima viene
 a dar notte tranquilla a questo core.
 Così ai rai del Signore,
190ai tuoi bei raggi, o sposa,
 io chiudo i lumi, e l’alma omai riposa.
 MARIA SANTISSIMA
 Sì sì, riposa omai,
 chiudi in sonno di pace i stanchi rai.
 
    Pastorello in mezzo ai fiori
195quasi un fior più vago e bello
 dorme e aspetta il nuovo dì.
 
    Dopo tanti e tanti orrori
 sciolto il turbine de’ pianti,
 anche tu spera così.
 
 SAN MICHELE
200Or ora, o quanto lieto...
 AMOR DIVINO
 Quanto rapido il volo
 spiegherai verso il ciel.
 SAN MICHELE
                                             Qual va cantando
 su l’alba il cardellino,
 e spiega il suo piacer dall’elce, al pino.
 
205   Vola intorno al primo raggio
 l’augelletto vezzosetto
 e dal faggio all’orno va.
 
    Così a unirsi al suo bel nume
 l’alma amante in un istante
210le sue piume inalzerà.
 
 SAN GIUSEPPE
 Cedendo intanto a morte,
 or che l’alma abandona il corpo frale,
 SAN MICHELE
 privi d’ardor vitale
 che bevono da’ rai del caro nume
215lasceran di brugiare e gli occhi e ’l core.
 SAN GIUSEPPE
 Vorrei, che alfin diviso,
 AMOR DIVINO
 per man di Morte, no, per man d’Amore,
 SAN GIUSEPPE
 dall’alma amante, il seno
 d’ardor serbasse qualche vestigio almeno.
220Ma è pena inevitabile
 che vada alfin, se poco amò il mio core,
 tra chiusi marmi a mendicare ardore.
 
 A tre
 
 AMOR DIVINO
 
    Intanto chiudi i lumi.
 
 SAN MICHELE
 
 Vanne, o Giuseppe, in pace,
 
 AMOR DIVINO E SAN MICHELE
 
225ei ti precede Amor.
 
 SAN GIUSEPPE
 
    Mi abbaglio a la tua face
 ed ecco io chiudo i lumi,
 cedo al tuo vago ardor.
 
 AMOR DIVINO E SAN MICHELE
 
    Felice la Fenice
230rinasca dall’ardor.
 
 SAN GIUSEPPE
 
    È amabile gioire,
 morire per amor.
 
    Ceneri mie, restate,
 da voi già prendo il volo,
235e lungi omai dal suolo
 anelo al mio Signor.
 
 AMOR DIVINO E SAN MICHELE A DUE
 
    O ceneri beate
 restate ancor fumanti,
 vengano l’alme amanti
240a più infocarvi il cor.
 
 MARIA SANTISSIMA
 Degne al par degl’incendi
 son le ceneri ancora,
 qualor son di Fenice, e resta in loro
 nuova speme di vita e di ristoro.
 SAN MICHELE
245In estasi d’amore
 dolcemente inquieta,
 AMOR DIVINO
 e lieta e impaziente,
 SAN MICHELE
 e sol perché la opprime
 la gioia e ’l gran diletto,
 AMOR DIVINO
250l’alma ne vola omai fuori del petto.
 SAN GIUSEPPE
 Sposa adorata, addio,
 lungi da te, lungi dal caro nume...
 MARIA SANTISSIMA
 Puro, e limpido fiume,
 parti dal mar, per far ritorno al mare.
 AMOR DIVINO
255Ah sì, vanne sotterra,
 e tardo e lacrimoso
 serpendo occulto il suolo...
 MARIA SANTISSIMA
                                                  E giunto al mare
 spumando di contento
 sposerai le bell’onde
260d’un mesto pianto all’onde sue gioconde.
 
    Vanne, va’, verrà quel dì,
 ch’il ruscel, che si partì,
 rieda lieto in braccio al mar.
 
    Rieda al mar sempre a godere,
265e sia absorto dal piacere
 in un caro tempestar.
 
 SAN GIUSEPPE
 Lungi da te, lungi dal caro bene
 ne vado io già, sposa adorata, addio.
 Son io quel picciol rio...
 MARIA SANTISSIMA
270Giesù il mare infinito.
 SAN MICHELE
 E n’è Maria l’immacolato lito.
 SAN GIUSEPPE
 O lito, o mar, mi aspetta,
 in te resta il mio core...
 Giesù, caro Signore...
275pietoso accogli gli ultimi respiri
 di chi amando te sol, che sei mia vita,
 perché non sa, perché non può più amarti,
 more per viepiù amar, bontà infinita,
 son tutto fiamme, e sbocca
280dal petto il foco mio, che mi consuma...
 Fuma il cor tra gl’incendi...
 e indistinguibil già dal proprio ardore
 vivo anela a la sfera, e par che more.
 
    L’ardor, che cresce in seno
285dolce mancar mi fa...
 pur vo’ ridirlo: io t’a...
 io t’amo, e mi moro.
 
    Amando io vengo meno...
 né posso dirti più...
290Io t’amo, o mio Giesù...
 mio bel tesoro.
 
 SAN MICHELE
 Reina, il tuo Giuseppe
 in amabile eclissi
 ai bei rai del Signor offusca i lumi.
 AMOR DIVINO
295Ed è quel suo pallor, che ’l volto adombra,
 un moribondo e debole splendore.
 MARIA SANTISSIMA
 Agonizza...
 AMOR DIVINO
                       vien meno,
 SAN MICHELE
                                              ed ecco more.
 
    Potessi esser mortale,
 e con deliquio uguale
300morir anch’io così.
 
    Viver potessi almeno
 così d’amor ripieno
 com’egli, oh Dio, morì.
 
 MARIA SANTISSIMA
 Sacra Clizia amorosa
305vagheggia...
 AMOR DIVINO
                         anche recisa,
 MARIA SANTISSIMA
                                                   il vero sole.
 SAN MICHELE
 Fan le smorte viole
 sotto un ciglio seren l’orror gradito.
 MARIA SANTISSIMA
 Ed ecco io di mia mano
 chiudo i lumi al mio sposo,
310caro sposo diletto,
 ed io gli unisco ambe le palme al petto.
 TUTTI
 
    Se Giuseppe così more,
 di morir non ha timore
 chi servir sempre lo sa.
 
315   Ei lo guida, ei lo difende
 da le furie più tremende,
 e gl’impetra alfin pietà.
 
 Finis. Laus Deo, beatae Virgini, beatoque Josepho
 
 
 IL FILOSOFO DI CAMPAGNA
 
 
    Dramma giocoso per musica di Polisseno Fegeio, pastor arcade, da rappresentarsi nel teatro Grimani di San Samuel l’autunno dell’anno 1754, dedicato all’eccellentissime dame veneziane.
    In Venezia, MDCCLIV, presso Modesto Fenzo, con licenza de’ superiori.
 
 Nobilissime dame,
    su una giusta e fondata considerazione di quanto l’eccellenze vostre con animo veramente grande e generoso degnino benignamente della validissima loro protezione, a solo oggetto di beneficare, chiunque a quella con vera confidenza e sommissione ricorre, mi sono proposto far uscire su le scene sì la presente giocosa operetta che sei altre che la seguiranno tutte di differenti caratteri nel corso dell’autuno presente e carnovale venturo sotto i benignissimi auspici dell’eccellenze vostre. Se potessi colla mia insufficienza esprimere quei sentimenti di venerazione ed ossequio che mi obbligano verso l’eccellenze vostre sono securo che acquisterebbero qualche preggio nella generosità del nobilissimo animo loro. Nonostante spero almeno di riportarne dalla generosità dell’eccellenze vostre perché voranno degnarsi riflettere che non ho risparmiato né studio né fatica né spesa per fare che il divertimento che viene all’eccellenze vostre dedicato riesca se non degno di loro, almeno sia un testimonio del vivo desiderio che nutro di moltiplicare gl’atti del mio ossequio e venerazione. Sarà dunque della generosità dell’animo grande dell’eccellenze vostre il patrocinare queste operette come cosa loro propria, giacché anderanno gloriose per il nobile frontespicio che le adorna che né più sublime né più luminoso e per merito e per grandezza potea darsele del rispettabilissimo nome di vostre eccellenze; confido ancora che dalla generosità inseparabile dal loro animo nobile saranno agraditi gl’attestati del mio profondo ossequio col quale mi umilio di vostre eccellenze umilissimo, devotissimo, obbligatissimo, ossequiosissimo servitore.
 
    L’impressario
 
 
 PERSONAGGI
 
 PARTI SERIE
 
 EUGENIA figlia nubile di don Tritemio
 (la signora Giovannina Baglioni)
 RINALDO gentilomo amante d’Eugenia
 (la signora Angela Conti Leonardi detta la Taccarini e in suo luoco la signora Antonia Zamperini)
 
 PARTI BUFFE
 
 NARDO ricco contadino detto il Filosofo
 (il signor Francesco Baglioni)
 LESBINA cameriera in casa di don Tritemio
 (la signora Clementina Baglioni)
 DON TRITEMIO cittadino abitante in villa
 (il signor Francesco Carattoli)
 LENA nipote di Nardo
 (la signora Anna Zanini)
 CAPOCCHIO nodaro della villa
 (il signor Giacomo Caldinelli)
 
    La musica è del celebre maestro signor Baldassarre Galuppi detto Buranello.
    Ballerini: la signora Giovanna Griselini detta Tintoretta, il signor Giovanni Guidetti, la signora Margherita Morelli, il signor Alvise Taolato, la signora Anna Lapis, il signor Vicenzo Monari, la signora Felice Bonomi, il signor Giovanni Balreoma, la signora Elisabetta Morelli, il signor Domenico Morelli.
    Inventore e direttore de’ balli il signor Dominico Cupis detto Paita e il signor Giovanni Guidetti.
 
 
 MUTAZIONI DI SCENE
 
    Nell’atto primo: giardino; casa rustica in campagna; salotto con diverse porte.
    Per il primo ballo: il monte Parnaso.
    Nell’atto secondo: camera; casa rustica sudetta; camera sudetta.
    Per il secondo ballo: vasta campagna.
    Nell’atto terzo: casa rustica sudetta.
    Le scene sono d’invenzione del signor Giovanni Francesco Costa.
    Il vestiario è opera ed invenzione delli signori Demetrio Grazioli detto Guastalla ed Antonio Maurizio.
 
 
 ATTO PRIMO
 
 SCENA PRIMA
 
 Giardino in casa di don Tritemio.
 
 EUGENIA con un ramo di gelsomini, LESBINA con una rosa in mano
 
 EUGENIA
 
    Candidetto gelsomino
 che sei vago in sul mattino,
 perderai, vicino a sera,
 la primiera tua beltà.
 
 LESBINA
 
5   Vaga rosa, onor de’ fiori,
 fresca piaci ed innamori
 ma vicino è il tuo flagello
 e il tuo bello sparirà.
 
 A DUE
 
    Tal di donna la bellezza
10più ch’è fresca, più s’apprezza,
 s’abbandona allorché perde
 il bel verde dell’età.
 
 EUGENIA
 Basta, basta, non più,
 che codesta canzon, Lesbina mia,
15troppo mi desta in sen malinconia.
 LESBINA
 Anzi cantarla spesso,
 padrona, io vi consiglio,
 per sfugir della rosa il rio periglio.
 EUGENIA
 Ah! Che sotto d’un padre
20asprissimo e severo
 far buon uso non spero
 di questa età che della donna è il fiore;
 troppo, troppo nemico ho il genitore.
 LESBINA
 Pur delle vostre nozze
25lo intesi ragionar.
 EUGENIA
                                   Nozze infelici
 sarebbero al cuor mio le divisate
 dall’avarizia sua. Dell’uomo vile,
 che Nardo ha nome, ei mi vorria consorte.
 L’abborisco e mi scelgo anzi la morte.
 LESBINA
30Non così parlereste,
 s’ei proponesse al vostro cor Rinaldo.
 EUGENIA
 Lesbina... Oimè...
 LESBINA
                                   V’ho fatto venir caldo?
 Vi compatisco; un cavalier gentile,
 in tutto a voi simile,
35nell’età, nel costume e nell’amore,
 far potrebbe felice il vostro cuore.
 EUGENIA
 Ma il genitor mi nega...
 LESBINA
 Si supplica, si prega,
 si sospira, si piange e se non basta
40si fa un po’ la sdegnosa e si contrasta.
 EUGENIA
 Ah mi manca il coraggio.
 LESBINA
                                                Io vi offerisco
 quel che so, quel che posso. È ver che sono
 in una età da non prometter molto;
 ma posso, se m’impegno,
45far valere per voi l’arte e l’ingegno.
 EUGENIA
 Cara di te mi fido. Amor, pietade
 per la padrona tua serba nel seno;
 se non felice appieno,
 almen fa’ ch’io non sia sì sventurata.
 LESBINA
50Meglio sola che male accompagnata.
 Così volete dir; sì sì, v’intendo.
 EUGENIA
 Dunque da te qualche soccorso attendo.
 
    Se perde il caro lido
 sopporta il mar che freme.
55Lo scoglio è quel che teme
 il misero nochier.
 
    Lontan dal caro bene
 soffro costante e peno
 ma questo cuore almeno
60rimanga in mio poter.
 
 SCENA II
 
 LESBINA, poi DON TRITEMIO
 
 LESBINA
 Povera padroncina!
 Affé la compatisco.
 Quest’anch’io la capisco.
 Insegna la prudenza,
65se non si ha quel che piace, è meglio senza.
 DON TRITEMIO
 Che si fa, signorina?
 LESBINA
 Un po’ d’insalatina
 raccogliere volea pel desinare.
 DON TRITEMIO
 Poco fa v’ho sentito a cantuzzare.
 LESBINA
70È ver, colla padrona
 mi divertiva un poco.
 DON TRITEMIO
                                          E mi figuro
 che cantate s’avranno
 canzonette d’amor.
 LESBINA
                                      Oh non signore;
 di questo o di quel fiore,
75di questo o di quel frutto
 si cantavan le lodi.
 DON TRITEMIO
                                     Il crederò?
 LESBINA
 Le volete sentir?
 DON TRITEMIO
                                 Le sentirò.
 LESBINA
 (Qualche stroffetta canterò a proposito). (Da sé)
 DON TRITEMIO
 (Oh ragazza!... Farei uno sproposito). (Da sé)
 LESBINA
80Sentite, padron bello,
 la canzonetta sopra il ravanello.
 
    Quando son giovine,
 son fresco e bello,
 son tenerello,
85di buon sapor.
 
    Ma quando invecchio
 gettato sono;
 non son più buono
 col pizzicor.
 
 DON TRITEMIO
90Scaccia questa canzon dalla memoria.
 LESBINA
 Una ne vuo’ cantar sulla cicoria.
 
    Son fresca e son bella
 cicoria novella.
 Mangiatemi presto;
95coglietemi su.
 
    Se resto nel prato,
 radichio invecchiato,
 nessuno si degna
 raccogliermi più.
 
 DON TRITEMIO
100Senti ragazza mia,
 questa canzone ha un poco d’allegria.
 Tu sei, Lesbina bella,
 cicorietta novella;
 prima che ad invecchiar ti veda il fato,
105esser colta dovresti in mezzo al prato.
 LESBINA
 Per me v’è tempo ancora.
 Dovreste alla signora
 pensar, caro padrone.
 Or ch’è buona stagione,
110or ch’è un frutto maturo e saporito,
 non la fate invecchiar senza marito.
 DON TRITEMIO
 A lei ho già pensato;
 sposo le ho destinato e avrallo presto.
 LESBINA
 Posso saper chi sia?
 DON TRITEMIO
                                       Nardo è cotesto.
 LESBINA
115Di quella tenerina
 erbetta cittadina
 la bocca d’un villan non mi par degna.
 DON TRITEMIO
 Eh la prudenza insegna
 che ogn’erba si contenti
120d’aver qualche governo,
 purch’esposta non resti al crudo verno.
 LESBINA
 Io mi contenterei,
 pria di vederla così mal troncata,
 per la neve lasciar la mia insalata.
 DON TRITEMIO
125Tu sei un bocconcino
 per il tuo padroncino.
 LESBINA
                                          Oh oh sentite
 un’altra canzonetta ch’ho imparata
 sul proposito mio dell’insalata.
 
    Non raccoglie le mie foglie
130vecchia mano di pastor.
 
    Voglio un bello pastorello;
 o vuo’ star nel prato ancor. (Parte)
 
 SCENA III
 
 DON TRITEMIO e poi RINALDO
 
 DON TRITEMIO
 Allegoricamente
 m’ha detto che con lei non farò niente.
135Eppure io mi lusingo
 che a forza di finezze
 tutto supererò,
 che col tempo con lei tutto farò.
 Per or d’Eugenia mia
140liberarmi mi preme. Un buon partito
 Nardo per lei sarà, ricco, riccone,
 un villano, egli è ver, ma sapientone.
 RINALDO
 (Ecco della mia bella
 il genitor felice). (Da sé in disparte)
 DON TRITEMIO
145Per la villa si dice
 che Nardo ha un buono stato
 e da tutti filosofo è chiamato. (Da sé)
 RINALDO
 (Sorte, non mi tradir). Signor.
 DON TRITEMIO
                                                          Padrone.
 RINALDO
 S’ella mi permettesse,
150le direi due parole.
 DON TRITEMIO
 Anche quattro ne ascolto e più, se vuole.
 RINALDO
 Non so se mi conosca.
 DON TRITEMIO
                                          Non mi pare.
 RINALDO
 Di me si può informare.
 Son cavaliere e sono i beni miei
155vicini ai suoi.
 DON TRITEMIO
                            Mi rallegro con lei.
 RINALDO
 Ell’ha una figlia.
 DON TRITEMIO
                                 Sì signor.
 RINALDO
                                                     Dirò...
 Se fossi degno... Troppo ardire è questo...
 Ma! Mi sprona l’amore...
 DON TRITEMIO
                                                Intendo il resto.
 RINALDO
 Dunque, signor...
 DON TRITEMIO
                                   Dunque, signor mio caro,
160per venir alle corte io vi dirò...
 RINALDO
 M’accordate la figlia?
 DON TRITEMIO
                                          Signor no.
 RINALDO
 Ahi mi sento morir!
 DON TRITEMIO
                                        Per cortesia,
 non venite a morir in casa mia.
 RINALDO
 Ma perché sì aspramente
165mi togliete alla prima ogni speranza?
 DON TRITEMIO
 Lusingarvi sarebbe una increanza.
 RINALDO
 Son cavalier.
 DON TRITEMIO
                           Benissimo.
 RINALDO
                                                  De’ beni
 ricco son quanto voi.
 DON TRITEMIO
                                        Son persuaso.
 RINALDO
 Il mio stato, i miei fondi,
170le parentele mie vi mostrerò.
 DON TRITEMIO
 Credo tutto.
 RINALDO
                         Che speri?
 DON TRITEMIO
                                               Signor no.
 RINALDO
 Ma la ragione almeno
 dite perché né men si vuol ch’io speri.
 DON TRITEMIO
 La ragion?...
 RINALDO
                          Vuo’ saper...
 DON TRITEMIO
                                                   Sì, volentieri.
 
175   La mia ragion è questa...
 Mi par ragione onesta.
 La figlia mi chiedeste
 e la ragion voleste...
 La mia ragion sta qui.
180Non posso dirvi sì,
 perché vuo’ dir di no.
 
    Se non vi basta ancora,
 un’altra ne dirò;
 rispondo: «Signor no,
185perché la vuo’ così».
 E son padron di dirlo;
 la mia ragion sta qui. (Parte)
 
 SCENA IV
 
 RINALDO solo
 
 RINALDO
 Sciocca ragione indegna
 d’anima vil dell’onestà nemica.
190Ma non vuo’ che si dica
 ch’io soffra un tale insulto,
 ch’io debb’andar villanamente inulto.
 O Eugenia sarà mia
 o tu, padre inumano,
195ti pentirai del tuo costume insano.
 
    Taci, amor, nel seno mio,
 finché parla il giusto sdegno;
 o prendete ambi l’impegno
 i miei torti a vendicar.
 
200   Fido amante, è ver, son io;
 ogni duol soffrir saprei
 ma il mio ben non soffrirei
 con viltate abbandonar. (Parte)
 
 SCENA V
 
 Campagna con casa rustica.
 
 NARDO esce di casa con una vanga accompagnato da alcuni villani
 
 NARDO
 
    Al lavoro, alla campagna,
205poi si gode, poi si magna
 con diletto e libertà.
 
    Oh che pane delicato,
 se da noi fu coltivato!
 Presto, presto a lavorare,
210a prodare, a seminare,
 e doppoi si mangerà;
 del buon vin si beverà
 ed allegri si starà. (Partono i contadini, restandone uno impiegato)
 
 Vanga mia benedetta,
215mio diletto conforto e mio sostegno,
 tu sei lo scettro e questi campi il regno.
 Quivi regnò mio padre,
 l’avolo ed il bisavolo ed il tritavolo
 e fur sudditi lor la zucca, il cavolo.
220Nelle città famose
 ogni generazion si cambia stato.
 Se il padre ha accumulato
 con fatica, con arte e con periglio,
 distrugge i beni suoi prodigo il figlio.
225Qui, dove non ci tiene
 il lusso, l’ambizion, la gola oppressi,
 sono gl’uomini ognor sempre gl’istessi.
 Non cambierei, lo giuro,
 col piacer delle feste e dei teatri
230zappe, trebbie, rastrei, vanghe ed aratri.
 
 SCENA VI
 
 LA LENA ed il sudetto
 
 LA LENA
 Eccolo qui; la vanga
 è tutto il suo diletto. (Da sé)
 Se fosse un poveretto, (A Nardo)
 compatir vi vorrei; ma siete ricco,
235avete dei poderi e dei contanti;
 la fatica lasciate ai lavoranti.
 NARDO
 Cara nipote mia,
 piuttosto che parlar come una sciocca,
 fareste meglio maneggiar la rocca.
 LA LENA
240Colla rocca, col fuso e coi famigli
 stanca son d’annoiarmi;
 voi dovreste pensare a maritarmi.
 NARDO
 Sì, volentieri. Presto
 comparisca un marito. Eccolo qui. (Accenna un villano)
245Vuoi sposar mia nipote? Signorsì.
 Eccolo io ve lo do.
 Lo volete? Vi piace? (Alla Lena)
 LA LENA
                                        Signor no.
 NARDO
 Va’ a veder se passasse
 a caso per la strada
250qualche affamato con parucca e spada. (Al villano, il quale parte ridendo)
 Vedi? Ride Mingone e ti corbella.
 Povera vanarella,
 tu sposeresti un conte od un marchese,
 perché in meno d’un mese,
255strappazzata la dote e la fanciulla,
 la nobiltà ti riducesse al nulla.
 LA LENA
 Io non voglio un signor né un contadino.
 Mi basta un cittadino
 che stia bene...
 NARDO
                              Di che?
 LA LENA
                                               Ch’abbia un’entrata
260qual a mediocre stato si conviene.
 Che sia discreto e che mi voglia bene.
 NARDO
 Lena, pretendi assai.
 Se lo brami così, nol troverai.
 Per lo più i cittadini
265hanno pochi quattrini e troppe voglie
 e non usano molto amar la moglie.
 Per pratica commune
 nelle cittadi usata,
 è maggiore l’uscita dell’entrata.
 LA LENA
270Il signor don Tritemio
 è cittadino, eppure
 così non usa?
 NARDO
                            È vero,
 ma in villa se ne sta,
 perché nella città vede il pericolo
275d’esser vizioso o diventar ridicolo.
 LA LENA
 Della figliuola sua
 v’han proposte le nozze, io ben lo so.
 NARDO
 Ed io la sposerò,
 perché la dote e il padre suo mi piace,
280con patto che non sia
 gonfia di vento e piena d’albagia.
 LA LENA
 L’avete ancor veduta?
 NARDO
 Ieri solo è venuta;
 oggi la vederò.
 LA LENA
                              Dunque chi sa
285s’ella vi piacerà.
 NARDO
                                Basta non abbia
 visibili magagne;
 sono le donne poi tutte compagne.
 LA LENA
 Ammogliatevi presto signor zio
 ma voglio poscia maritarmi anch’io.
 
290   Di questa poverella
 abbiate carità.
 Io son un’orfanella
 che madre più non ha.
 Voi siete il babbo mio.
295Vedete caro zio
 ch’io cresco nell’età.
 
    La vostra nipotina
 vorrebbe poverina...
 Sapete... M’intendete...
300Movetevi a pietà. (Parte)
 
 SCENA VII
 
 NARDO solo
 
 NARDO
 Sì signora, non dubiti,
 che contenta sarà.
 La si mariterà la poverina;
 ma la vuo’ maritar da contadina.
305Ecco; il mondo è così. Niuno è contento
 del grado in cui si trova
 e lo stato cambiare ognun si prova.
 Vorrebbe il contadino
 diventar cittadino; il cittadino
310cerca nobilitarsi
 ed il nobile ancor vorrebbe alzarsi.
 D’un gradino alla volta
 qualchedun si contenta;
 alcuno due o tre ne fa in un salto
315ma lo sbalzo è peggior quanto è più alto.
 
    Vedo quell’albero
 che ha un pero grosso,
 pigliar nol posso,
 si sbalzi in su.
 
320   Ma fatto il salto,
 salito in alto,
 vedo un perone
 grosso assai più.
 
    Prender lo bramo,
325m’alzo sul ramo.
 Vado più in su.
 Ma poi precipito
 col capo in giù. (Parte)
 
 SCENA VIII
 
 Salotto in casa di don Tritemio con varie porte.