Catone in Utica, libretto, Stoccarda, Cotta, 1754

 Chi creduto l’avrebbe! Il padre istesso
 congiura a danni suoi.
 BARCE
                                           Già che il Senato
 non decise finor, molto ti resta
415Attilia onde sperar. Corri, t’adopra,
 parla pria che di nuovo
 si raccolgano i padri. Adesso è il tempo
 di porre in uso e l’eloquenza e l’arte.
 Or l’amor de’ congiunti,
420or la fé degli amici, or de’ Romani
 giova implorar l’aita in ogni loco.
 ATTILIA
 Tutto farò ma quel ch’io spero è poco.
 
    Mi parea del porto in seno
 chiara l’onda, il ciel sereno;
425ma tempesta più funesta
 mi respinge in mezzo al mar.
 
    M’avvilisco, m’abbandono;
 e son degna di perdono,
 se pensando a chi la desta
430incomincio a disperar. (Parte)
 
 SCENA XI
 
 BARCE sola
 
 BARCE
 Che barbaro destino
 sarebbe il mio, se Amilcare dovesse
 pur di nuovo a Cartago
 senza me ritornar! Solo in pensarlo
435mi sento... Ah no; speriam più tosto. Avremo
 sempre tempo a penar. Non è prudenza
 ma follia de’ mortali
 l’arte crudel di presagirsi i mali.
 
    Sempre è maggior del vero
440l’idea d’una sventura
 al credulo pensiero
 dipinta dal timor.
 
    Chi stolto il mal figura
 affretta il proprio affanno
445ed assicura un danno
 quando è dubbioso ancor. (Parte)
 
 Fine dell’atto primo
 
 
 ATTO SECONDO
 
 SCENA PRIMA
 
 Luogo magnifico fuori di Roma, destinato per gli ambasciadori cartaginesi.
 
 REGOLO e PUBLIO
 
 REGOLO
 Publio? Tu qui! Si tratta
 della gloria di Roma,
 dell’onor mio, del publico riposo
450e in Senato non sei?
 PUBLIO
                                        Raccolto ancora
 signor non è.
 REGOLO
                           Va’ , non tardar; sostieni
 fra i padri il voto mio. Mostrati degno
 dell’origine tua.
 PUBLIO