Ciro riconosciuto, libretto, Venezia, Bettinelli, 1737

 Padre.
 ARBACE
                Signor.
 MARZIA, ARBACE A DUE
                                T’arresta.
 CATONE
                                                    Al guardo mio
 ardisci ancor di presentarti ingrata?
 ARBACE
 Una misera figlia
 lasciar potresti in servitù sì dura?
 CATONE
1850Ah questa indegna oscura
 la gloria mia.
 MARZIA
                           Che crudeltà! Deh ascolta
 i prieghi miei.
 CATONE
                              Taci.
 MARZIA
                                          Perdono o padre, (S’inginocchia)
 caro padre pietà. Questa che bagna
 di lagrime il tuo piede è pur tua figlia.
1855Ah volgi a me le ciglia,
 vedi almen la mia pena,
 guardami una sol volta e poi mi svena.
 ARBACE
 Placati alfine.
 CATONE
                            Or senti.
 Se vuoi che l’ombra mia vada placata
1860al suo fatal soggiorno, eterna fede
 giura ad Arbace e giura
 all’oppressore indegno
 della patria e del mondo eterno sdegno.
 MARZIA
 (Morir mi sento).
 CATONE
                                   E pensi ancor? Conosco
1865l’animo avverso. Ah da costei lontano
 volo a morir.
 MARZIA
                           No genitore, ascolta. (S’alza)
 Tutto farò. Vuoi che ad Arbace io serbi
 eterna fé? La serberò. Nemica
 di Cesare mi vuoi? Dell’odio mio
1870contro lui t’assicuro.
 CATONE
 Giuralo.
 MARZIA
                   (Oh dio). Su questa man lo giuro. (Prende la mano di Catone e la bacia)
 ARBACE
 Mi fa pietade.
 CATONE
                             Or vieni
 fra queste braccia e prendi
 gli ultimi amplessi miei figlia infelice.
1875Son padre alfine e nel momento estremo
 cede ai moti del sangue
 la mia fortezza. Ah non credea lasciarti
 in Africa così.
 MARZIA
                            Questo è dolore. (Piange)
 CATONE
 Non seduca quel pianto il mio valore.
 
1880   Per darvi alcun pegno
 d’affetto il mio core
 vi lascia uno sdegno,
 vi lascia un amore
 ma degno di voi,
1885ma degno di me.
 
    Io vissi da forte,
 più viver non lice.
 Almen sia la sorte
 ai figli felice
1890se al padre non è. (Parte)
 
 MARZIA
 Seguiamo i passi suoi.
 ARBACE
                                            Non s’abbandoni
 al suo crudel desio. (Parte)
 MARZIA
 Deh serbatemi o numi il padre mio. (Parte)
 
 SCENA XIII
 
 CESARE portato dai soldati sopra carro trionfale formato di scudi e d’insegne militari, preceduto dall’esercito vittorioso, da’ Numidi, istromenti bellici e popolo
 
 CORO
 
    Già ti cede il mondo intero
1895o felice vincitor.
 
    Non v’è regno, non v’è impero
 che resista al tuo valor. (Terminato il coro Cesare scende dal carro, quale disfacendosi, ciascuno de’ soldati che lo componevano si pone in ordinanza con gli altri)
 
 CESARE e FULVIO
 
 CESARE
 Il vincer o compagni
 non è tutto valor, la sorte ancora
1900ha parte ne’ trionfi. Il proprio vanto
 del vincitore è il moderar sé stesso
 né incrudelir su l’inimico oppresso.
 Con mille e mille abbiamo
 il trionfar comune,
1905il perdonar non già; questa è di Roma
 domestica virtù. Se ne rammenti
 oggi ciascun di voi. D’ogni nemico
 risparmiate la vita e con più cura
 conservate in Catone
1910l’esempio degli eroi
 a me, alla patria, all’universo, a voi.
 FULVIO
 Cesare non temerne, è già sicura
 la salvezza di lui. Corse il tuo cenno
 per le schiere fedeli.
 
 SCENA ULTIMA
 
 MARZIA, EMILIA e detti
 
 MARZIA
1915Lasciatemi o crudeli. (Verso la scena)
 Voglio del padre mio
 l’estremo fato accompagnare anch’io.
 FULVIO
 Che fu?
 CESARE
                  Che ascolto!
 MARZIA
                                          Ah quale oggetto! Ingrato (A Cesare)
 va’, se di sangue hai sete, estinto mira
1920l’infelice Catone. Eccelsi frutti
 del tuo valor son questi. Il più dell’opra
 ti resta ancor. Via quell’acciaro impugna
 e in faccia a queste squadre
 la disperata figlia unisci al padre. (Piange)
 CESARE
1925Ma come!... Per qual mano!...
 Si trovi l’uccisor.
 EMILIA
                                  Lo cerchi invano.
 MARZIA
 Volontario morì. Catone oppresso
 rimase, è ver, ma da Catone istesso.
 CESARE
 Roma chi perdi!
 EMILIA
                                 Roma
1930il suo vindice avrà.
 MARZIA
                                     Palpita ancora
 la grand’alma di Bruto in qualche petto.
 CESARE
 Emilia, io giuro ai numi...
 EMILIA
                                                  I numi avranno
 cura di vendicarci, assai lontano
 forse il colpo non è. Per pace altrui
1935l’affretti il cielo e quella man che meno
 credi infedel, quella ti squarci il seno. (Parte)
 CESARE
 Tu Marzia almen rammenta...
 MARZIA
                                                         Io mi rammento
 che son per te d’ogni speranza priva,
 orfana, desolata e fuggitiva.
1940Mi rammento che al padre
 giurai d’odiarti e per maggior tormento
 che un ingrato adorai pur mi rammento. (Parte)
 CESARE
 Quanto perdo in un dì!
 FULVIO
                                             Quando trionfi
 ogni perdita è lieve.
 CESARE
1945Ah se costar mi deve
 i giorni di Catone il serto, il trono,
 ripigliatevi o numi il vostro dono. (Getta il lauro)
 
 FINE
 
 
 
 
 IL CATONE IN UTICA
 
    Dramma per musica da rappresentarsi nel teatro Ducale di Stutgart, festeggiandosi il felicissimo giorno natalizio di sua altezza serenissima Elisabetta Sofia Federica, duchessa di Wirtemberg e Tech, per comando di sua altezza serenissima Carlo, duca di Wirtemberg e Tech, etcetera, etcetera.
    La poesia è del celebre signor abbate Pietro Metastasio, poeta cesareo. La musica è del celebre signor Nicolò Jommelli, direttore di musica e maestro di capella all’attual servizio di sua altezza serenissima, il signor duca di Wirtemberg.
    Stutgart, nella stamparia di Giovanne Georgio Cotta, stampatore ducale, anno 1754.
 
 
 ARGOMENTO
 
    Dopo la morte di Pompeo il di lui contradittore Giulio Cesare fattosi perpetuo dittatore si vide rendere omaggio non solo da Roma e dal Senato ma da tutto il rimanente del mondo, fuor che da Catone il Minore, senatore romano che poi fu detto Uticense dal luogo della sua morte, uomo già venerato come padre della patria non meno per l’austera integrità de’ costumi che per il valore, grand’amico di Pompeo ed acerbissimo difensore della libertà romana. Questi avendo raccolti in Utica i pochi avanzi delle disperse milizie pompeiane, con l’aiuto di Giuba re de’ Numidi, amico fedelissimo della republica, ebbe costanza di opporsi alla felicità del vincitore. Cesare vi accorse con esercito numeroso e benché in tanta disuguaglianza di forze fosse sicurissimo di opprimerlo, pure invece di minacciarlo, innamorato della virtù di lui, non trascurò offerta o preghiera per renderselo amico; ma quegli ricusando aspramente qualunque condizione, quando vide disperata la difesa di Roma, volle almeno morir libero uccidendo sé stesso. Cesare nella morte di lui diede segni di altissimo dolore, lasciando in dubbio alla posterità se fosse più ammirabile la generosità di lui, che venerò a sì alto segno la virtù ne’ suoi nemici, o la costanza dell’altro che non volle sopravvivere alla libertà della patria. Tutto ciò si ha dagli storici, il resto è verisimile.
    Per comodo della musica cangeremo il nome di Cornelia, vedova di Pompeo, in Emilia e quello del giovane Giuba, figlio dell’altro Giuba re di Numidia, in Arbace.
    La scena è in Utica città dell’Africa.
 
 
 PERSONAGGI
 
 CATONE
 (il signor Cristofolo d’Hager)
 CESARE
 (il signor Gioseppe Jozzi)
 MARZIA figlia di Catone ed amante occulta di Cesare
 (la signora Marianna Pircher)
 ARBACE principe reale di Numidia, amico di Catone ed amante di Marzia
 (il signor Francesco Bozzi)
 EMILIA vedova di Pompeo
 (la signora Aloisia Pircher)
 FULVIO legato di senato romano a Catone, del partito di Cesare ed amante di Emilia
 (il signor Gioseppe Paganelli)
 
 
 MUTAZIONI DI SCENE
 
    Nell’atto primo: sala d’armi; parte interna delle mura di Utica con porta della città in prospetto chiusa da un ponte che poi si abbassa; fabbriche in parte rovinate vicino al soggiorno di Catone.
    Nell’atto secondo: alloggiamenti militari su le rive del fiume Bagrada con varie isole che comunicano fra loro per diversi ponti; camera con sedie.
    Nell’atto terzo: cortile; luogo ombroso circondato d’alberi con fonte d’Iside da un lato e dall’altro ingresso praticabile d’acquedotti antichi; gran piazza d’armi dentro le mura d’Utica, parte di dette mura diroccate, campo di cesariani fuori della città con padiglioni, tende e machine militari.
 
    Le scene sono di nuova invenzione del signor Innocente Colomba architteto teatrale di sua altezza serenissima il signor duca di Wirtemberg.
 
 
 DEL CATONE IN UTICA ATTO PRIMO
 
 SCENA PRIMA
 
 Sala d’armi.
 
 CATONE, MARZIA, ARBACE
 
 MARZIA
 Perché sì mesto, o padre? Oppressa è Roma,
 se giunge a vacillar la tua costanza.
 ARBACE
 Signor che pensi? In quel silenzio appena
 riconosco Catone.
 CATONE
5Figlia, amico, non sempre
 la mestizia, il silenzio
 è segno di viltade e agli occhi altrui
 si confondon sovente
 la prudenza e il timor. Se penso e taccio,
10taccio e penso a ragione.
 Cesare abbiamo a fronte
 che d’assedio ne stringe; i nostri armati
 pochi sono e mal fidi; in me ripone
 la speme che le avanza
15Roma che geme al suo tiranno in braccio;
 e chiedete ragion s’io penso e taccio?
 ARBACE
 Tutta Roma non vinse
 Cesare ancora.
 CATONE
                              E che gli resta mai?
 ARBACE, MARZIA
 Resta il tuo core.
 ARBACE
20Resta de miei Numidi anche il valore.
 CATONE
 M’è noto e il più nascondi,
 tacendo i merti tuoi, l’anima grande
 a cui, fuor che la sorte
 d’esser figlia di Roma, altro non manca.
 ARBACE
25Deh tu signor corregi
 questa colpa non mia.
 Marzia, tua figlia, adoro; ah, fa ch’io porga
 di sposo a lei la mano,
 non mi sdegni la figlia e son romano.
 MARZIA
30Come! Allor che paventa
 la nostra libertà l’ultimo fato,
 che arde il mondo di bellici furori,
 parla Arbace di nozze e chiede amori?
 CATONE
 Principe non temer, fra poco avrai
35Marzia tua sposa. In queste braccia intanto
 del mio paterno amore (Catone abbraccia Arbace)
 prendi il pegno primiero e ti rammenta
 ch’oggi Roma è tua patria. Il tuo dovere,
 or che romano sei,
40è di salvarla o di cader con lei.
 
    Con sì bel nome in fronte
 combatterai più forte.
 Rispetterà la sorte
 di Roma un figlio in te.
 
45   Libero vivi e quando
 tel nieghi il fato ancora,
 almen come si mora
 apprenderai da me. (Parte)
 
 SCENA II
 
 MARZIA, ARBACE
 
 MARZIA
 M’ami Arbace?
 ARBACE
                               Se t’amo!
 MARZIA
50Or s’io chiedessi, o prence,
 qualche prova da te?
 ARBACE
                                         Parla; che brami,
 che mai chieder mi puoi? La vita, il soglio?
 Imponi, eseguirò.
 MARZIA
                                    Tanto non voglio.
 Bramo che in questo giorno
55non si parli di nozze.
 ARBACE
                                         Ah so ben io
 qual ne sia la cagion. Cesare ancora
 è la tua fiamma.
 MARZIA
                                 Forse i tuoi sospetti
 dileguar io potrei ma tanto ancora
 non deggio a te. Servi al mio cenno e pensa
60a quanto promettesti, a quanto imposi.
 ARBACE
 Ma poi quegli occhi amati
 mi saranno pietosi o pur sdegnati?
 MARZIA
 
    Non ti minaccio sdegno,
 non ti prometto amor.
65Dammi di fede un pegno,
 fidati del mio cor,
 vedrò se m’ami.
 
    E di premiarti poi
 resti la cura a me
70né domandar mercé
 se pur la brami. (Parte)
 
 SCENA III
 
 ARBACE
 
 ARBACE
 Che giurai, che promisi! A qual comando
 ubbidir mi conviene! E chi mai vide
 più misero di me? La mia tiranna
75quasi sugli occhi miei si vanta infida
 ed io l’armi le porgo, onde m’uccida.
 
    Che legge spietata,
 che sorte crudele
 d’un’alma piagata,
80d’un core fedele
 servire, soffrire,
 tacere e penar!
 
    Se poi l’infelice
 domanda mercede,
85si sprezza, si dice
 che troppo richiede,
 ch’impari ad amar. (Parte)
 
 SCENA IV
 
 Parte interna delle mura di Utica con porta della città in prospetto chiusa da un ponte che poi si abbassa.
 
 CATONE, poi CESARE e FULVIO
 
 CATONE
 Dunque Cesare venga. Io non intendo
 qual cagion lo conduca: è inganno? È tema?
90No, d’un romano in petto
 non giunge a tanto ambizion d’impero
 che dia ricetto a così vil pensiero. (Cala il ponte e si vede venir Cesare con Fulvio)
 CESARE
 Con cento squadre e cento
 a mia difesa armate in campo aperto
95non mi presento a te. Senz’armi e solo
 sicuro di tua fede
 fra le mura nemiche io porto il piede.
 Tanto Cesare onora
 la virtù di Catone, emulo ancora.
 CATONE
100Mi conosci abbastanza.
 CESARE
 È ver, noto mi sei. Già il tuo gran nome
 fin da’ primi anni a vennerare appresi.
 In cento bocche intesi
 della patria chiamarti
105padre e sostegno e delle antiche leggi
 rigido difensor. Fu poi la sorte
 prodiga all’armi mie del suo favore.
 Ma l’acquisto maggiore,
 per cui contento ogni altro acquisto io cedo,
110è l’amicizia tua, questa ti chiedo.
 FULVIO
 E il Senato la chiede; a voi m’invia
 nuncio del suo volere.
 CATONE
 Chi vuol Catone amico
 facilmente lo avrà; sia fido a Roma.
 CESARE
115Chi più fido di me! Spargo per lei
 il sudor da gran tempo e il sangue mio.
 E dal clima remoto
 se venni poi...
 CATONE
                             Già tutto il resto è noto.
 Di tue famose imprese
120godiamo i frutti e in ogni parte abbiamo
 pegni dell’amor tuo.
 
 SCENA V
 
 EMILIA e detti
 
 EMILIA
                                        Che veggio o dei!
 Questo è dunque l’asilo
 ch’io sperai da Catone?
 CATONE
 Modera il tuo furor.
 CESARE
                                       Se tanto ancora
125sei sdegnata con me, sei troppo ingiusta.
 EMILIA
 Ingiusta? E tu non sei
 la cagion de’ miei mali? Il mio consorte
 tua vittima non fu?
 CESARE
                                      Io parte alcuna
 non ho di Tolomeo nell’impietade.
130La vendetta ch’io presi è manifesta.
 E sa il ciel, tu lo sai
 s’io piansi allor su l’onorata testa.
 CATONE
 Ma chi sa se piangesti
 per gioia o per dolor? La gioia ancora
135ha le lagrime sue.
 FULVIO
 Signor, questo non parmi
 tempo opportuno a favellar di pace.
 Chiede l’affar più solitaria parte
 e mente più serena.
 CATONE
                                       Al mio soggiorno
140dunque in breve io vi attendo. E tu frattanto
 pensa Emilia che tutto
 lasciar l’affanno in libertà non dei,
 giacché ti fe’ la sorte
 figlia a Scipione ed a Pompeo consorte. (Parte)
 
 SCENA VI
 
 CESARE, EMILIA e FULVIO
 
 CESARE
145Tu taci Emilia? In quel silenzio io spero
 un principio di calma.
 EMILIA
 T’inganni. Allor ch’io taccio,
 medito le vendette.
 FULVIO
                                      E non ti plachi
 d’un vincitor sì generoso a fronte?
 EMILIA
150Io placarmi? Anzi sempre in faccia a lui,
 se fosse ancor di mille squadre cinto,
 dirò che l’odio e che lo voglio estinto.
 CESARE
 
    Nell’ardire che il seno ti accende,
 così bello lo sdegno si rende
155che in un punto mi desti nel petto
 maraviglia, rispetto e pietà.
 
    Tu m’insegni con quanta costanza
 si contrasti alla sorte inumana
 e che sono ad un’alma romana
160nomi ignoti timore e viltà. (Parte)
 
 SCENA VII
 
 EMILIA e FULVIO
 
 EMILIA
 Quanto da te diverso
 io ti riveggio o Fulvio! E chi ti rese
 di Cesare seguace, a me nemico?
 FULVIO
 Allor ch’io servo a Roma
165non son nemico a te.
 EMILIA
                                        Mal vanno insieme
 di Cesare l’amico
 e l’amante d’Emilia; o lui difendi
 o vendica il mio sposo; a questo prezzo
 ti permetto che m’ami.
 FULVIO
                                             Un tuo comando
170prova ne faccia.
 EMILIA
                                Io voglio
 Cesare estinto. Or posso
 di te fidarmi?
 FULVIO
                             Ogni altra man sarebbe
 men fida della mia. Ma dimmi intanto
 potrò spiegarti almeno
175tutti gli affetti miei?
 EMILIA
                                        Non è ancor tempo
 che tu parli d’amore e ch’io t’ascolti.
 Parti, adempi il disegno e allor più lieta
 forse t’ascolterò.
 FULVIO
                                 Sì, vado e intanto
 calma lo sdegno e ancor rasciuga il pianto. (Parte)
 
 
 SCENA VIII
 
 EMILIA
 
 EMILIA
180Se gli altrui folli amori ascolto e soffro
 e s’io respiro ancor dopo il tuo fato,
 perdona o sposo amato.
 Perdona; a vendicarmi
 non mi restano altr’armi. A te gli affetti
185tutti donai, per te gli serbo e quando
 termini il viver mio, saranno ancora
 al primo nodo avvinti,
 s’è ver ch’oltre la tomba aman gli estinti.
 
    O nel sen di qualche stella
190o sul margine di Lete
 se mi attendi anima bella,
 non sdegnarti, anch’io verrò.
 
    Sì verrò; ma voglio pria
 che preceda all’ombra mia
195l’ombra rea di quel tiranno
 che a tuo danno il mondo armò. (Parte)
 
 SCENA IX
 
 Fabbriche in parte rovinate vicino al soggiorno di Catone.
 
 Cesare da una parte e Marzia dall’altra.
 
 CESARE
 Pur ti riveggo, o Marzia. Agli occhi miei
 appena il credo e temo
 che per costume a figurarti avvezzo
200mi lusinghi il pensiero. Or dì qual parte
 hanno gli affetti miei
 negli affetti di Marzia?
 MARZIA
                                             E tu chi sei?
 CESARE
 Chi sono! E qual richiesta! È scherzo? E sogno?
 Cesare non ravvisi?
205Quello a cui tu giurasti
 per volger d’anni e per destin rubello
 di non essergli infida?
 MARZIA
                                            E tu sei quello?
 No, tu quello non sei, n’usurpi il nome.
 Un Cesare adorai, nol niego, ed era
210della patria il sostegno,
 l’onor del Campidoglio.
 CESARE
 Sempre l’istesso io sono.
 Che far di più dovrei? Supplice io stesso
 vengo a chiedervi pace.
215Quando potrei... Tu sai...
 MARZIA
                                                So che con l’armi
 però la chiedi.
 CESARE
                             Ascoltami e perdona
 un sincero parlar. Quanto me stesso
 io t’amo, è ver, ma la beltà del volto
 non fu che mi legò; Catone adoro
220nel sen di Marzia; il tuo bel core ammiro
 come parte del suo; qua più mi trasse
 l’amicizia per lui che il nostro amore;
 e se, lascia ch’io possa
 dirti ancor più, se m’imponesse un nume
225di perdere un di voi, morir d’affanno
 nella scelta potrei
 ma Catone e non Marzia io salverei.
 MARZIA
 Ecco il Cesare mio. Ama Catone,
 io non ne son gelosa, un tal rivale
230se divide il tuo core,
 più degno sei ch’io ti conservi amore.
 CESARE
 Questa è troppa vittoria. Ah mal da tanta
 generosa virtude io mi difendo.
 Ti rassicura, io penso
235al tuo riposo e pria che cada il giorno
 dall’opre mie vedrai
 che son Cesare ancora e che t’amai.
 
    Chi un dolce amor condanna
 vegga la mia nemica,
240l’ascolti e poi mi dica
 s’è debolezza amor.
 
    Quando da sì bel fonte
 derivano gli affetti,
 vi son gli eroi soggetti,
245amano i numi ancor. (Parte)
 
 SCENA X
 
 MARZIA, poi CATONE
 
 MARZIA
 Mie perdute speranze
 rinascer tutte entro il mio sen vi sento.
 Chi sa? Placato il padre
 se all’amistà di Cesare si appiglia,
250non m’avrà forse Arbace.
 CATONE
                                                Andiamo o figlia.
 MARZIA
 Dove?
 CATONE
                Al tempio, alle nozze
 del principe numida.
 MARZIA
                                          (Arbace infido!) All’ara
 forse il prence non giunse.
 CATONE
                                                   Un mio fedele
 già corse ad affrettarlo. (In atto di partire)
 MARZIA
                                              (Ah che tormento!)
 
 SCENA XI
 
 ARBACE e detti
 
 ARBACE
255Deh t’arresta o signor. (A Catone)
 MARZIA
                                            (Sarai contento). (Piano ad Arbace)
 CATONE
 Vieni o principe, andiamo
 a compir l’imeneo; potea più pronto
 donar quanto promisi?
 ARBACE
                                             A sì gran dono
 è poco il sangue mio, ma se pur vuoi
260che si renda più grato, all’altra aurora
 differirlo ti piaccia.
 CATONE
 No, già fumano l’are,
 son raccolti i ministri ed importuna
 sarebbe ogni dimora.
 ARBACE
                                          Oh dio!... Non sai... (Che pena!)
 CATONE
265Ma qual freddezza è questa! Io non l’intendo.
 Fosse Marzia l’audace
 che si oppone a’ tuoi voti? (Ad Arbace)
 MARZIA
                                                   Io! Parli Arbace.
 ARBACE
 No, son io che ti priego.
 CATONE
                                              Ah qualche arcano
 qui si nasconde. (Ei chiede... (Da sé)
270poi ricusa la figlia... Il giorno stesso
 che vien Cesare a noi, tanto si cangia...
 Sì lento... Sì confuso... Io temo...) Arbace
 non ti sarebbe già tornato in mente
 che nascesti africano?
 ARBACE
                                           Io da Catone
275tutto sopporto e pure...
 CATONE
 E pure assai diverso
 io ti credea.
 ARBACE
                         Vedrai...
 CATONE
                                           Vidi abbastanza;
 e nulla ormai più da veder m’avanza. (Parte)
 ARBACE
 Brami di più, crudele? Ecco adempito
280il tuo comando, ecco in sospetto il padre
 ed eccomi infelice. Altro vi resta
 per appagarti?
 MARZIA
                              Ad ubbidirmi Arbace
 incominciasti appena e in faccia mia
 già ne fai sì gran pompa?
 ARBACE
                                                 O tirannia! (Parte)
 
 SCENA XII
 
 MARZIA sola
 
 MARZIA
285Ah troppo dissi e quasi tutto Arbace
 comprese l’amor mio. Ma chi può mai
 sì ben dissimular gli affetti sui
 che gli asconda per sempre agli occhi altrui?
 
    È follia se nascondete
290fidi amanti il vostro foco.
 A scoprir quel che tacete
 un pallor basta improviso,
 un rossor che accenda il viso,
 uno sguardo ed un sospir.
 
295   E se basta così poco
 a scoprir quel che si tace,
 perché perder la sua pace
 con ascondere il martir?
 
 Fine dell’atto primo
 
 
 ATTO SECONDO
 
 SCENA PRIMA
 
 Alloggiamenti militari sulle rive del fiume Bagrada con varie isole che comunicano fra loro per diversi ponti.
 
 CATONE con seguito, poi MARZIA, indi ARBACE
 
 CATONE
 Romani, il vostro duce
300se mai sperò da voi prove di fede,
 oggi da voi le spera, oggi le chiede.
 MARZIA
 Nelle nuove difese
 che la tua cura aggiunge io veggio, o padre,
 segni di guerra e pur sperai vicina
305la sospirata pace.
 ARBACE
 Signor, già de’ Numidi
 giunser le schiere; eccoti un nuovo pegno
 della mia fedeltà.
 CATONE
                                   Non basta Arbace
 per togliermi i sospetti.
 ARBACE
                                              Oh dei, tu credi...
 CATONE
310Sì poca fede in te. Perché mi taci
 chi a differir t’induca
 il richiesto imeneo? Perché ti cangi
 quando Cesare arriva?
 ARBACE
 Ah se fui degno mai
315dell’amor tuo, soffri l’indugio. Io giuro
 per quanto ho di più caro
 ch’è l’onor mio, ch’io ti sarò fedele.
 Il domandarti alfine
 che l’imeneo nel nuovo dì succeda
320sì gran colpa non è.
 CATONE
                                      Via, si conceda.
 Ma dentro a queste mura,
 finché sposo di lei te non rimiro,
 Cesare non ritorni.
 MARZIA
                                      (Oh dei).
 ARBACE
                                                          (Respiro).
 MARZIA
 Ma questo a noi che giova? (A Catone)
 CATONE
                                                     In simil guisa
325d’entrambi io m’assicuro.
 MARZIA
 E dovrà dilungarsi
 per sì lieve cagione affar sì grande?
 CATONE
 Marzia t’accheta. Al nuovo giorno, o prince,
 sieguan le nozze, io tel consento, intanto
330ad impedir di Cesare il ritorno
 mi porto in questo punto.
 MARZIA
 (Dei che farò!)
 
 SCENA II
 
 FULVIO e detti
 
 FULVIO
                              Signor, Cesare è giunto.
 MARZIA
 (Torno a sperar).
 CATONE
                                  Dov’è?
 FULVIO
                                                  D’Utica appena
 entrò le mura.
 ARBACE
                             (Io son di nuovo in pena).
 CATONE
335Vanne, Fulvio, al suo campo,
 digli che rieda.
 FULVIO
                               E perché mai?
 CATONE
                                                            Non rendo
 ragione altrui dell’opre mie.
 FULVIO
                                                      Ma questo
 in ogni altro che in te mancar saria
 alla publica fede. Alfin dal volgo
340non si distingue Cesare sì poco
 che sia lecito altrui prenderlo a gioco.
 CATONE
 Fulvio ammiro il tuo zelo, invero è grande.
 Ma un buon roman si accenderebbe meno
 a favor d’un tiranno.
 FULVIO
                                        Un buon roman...
 CATONE
345Non più. Da queste soglie
 Cesare parta. Io farò noto a lui
 quando giovi ascoltarlo.
 FULVIO
                                              Invan lo speri.
 Sì gran torto non soffro.
 CATONE
                                              E che farai?
 FULVIO
 Il mio dover.
 CATONE
                           Ma tu chi sei?
 FULVIO
                                                       Son io
350il legato di Roma.
 CATONE
                                   E ben, di Roma
 parta il legato.
 FULVIO
                             Sì, ma leggi pria
 che contien questo foglio e chi l’invia. (Fulvio dà a Catone un foglio)
 ARBACE
 (Marzia perché sì mesta?)
 MARZIA
 (Eh non scherzar, che da sperar mi resta). (Catone apre il foglio e legge)
 CATONE
355«Il Senato a Catone. È nostra mente
 render la pace al mondo. Ognun di noi,
 i consoli, i tribuni, il popol tutto,
 Cesare istesso il dittator la vuole.
 Servi al pubblico voto e se ti opponi
360a così giusta brama,
 suo nemico la patria oggi ti chiama».
 FULVIO
 (Che dirà!)
 CATONE
                        Perché tanto
 celarmi il foglio?
 FULVIO
                                  Era rispetto.
 MARZIA
                                                           (Arbace
 perché mesto così?)
 ARBACE
                                       (Lasciami in pace). (Rileggendo da sé)
 CATONE
365«È nostra mente... Il dittator la vuole...
 Servi al publico voto...
 Suo nemico la patria...» E così scrive
 Roma a Catone?
 FULVIO
                                 Appunto.
 CATONE
                                                     Io di pensiero
 dovrò dunque cangiarmi?
 FULVIO
                                                  Un tal comando
370improviso ti giunge.
 CATONE
                                        È ver. Tu vanne
 e a Cesare...
 FULVIO
                         Dirò che qui l’attendi,
 che ormai più non soggiorni.
 CATONE
 No, gli dirai che parta e più non torni.
 FULVIO
 Ma come!
 MARZIA
                      (Ciel!)
 FULVIO
                                     Così...
 CATONE
                                                   Così mi cangio,
375così servo a un tal cenno.
 FULVIO
 E il foglio...
 CATONE
                        È un foglio infame
 che concepì, che scrisse
 non la ragion ma la viltade altrui.
 FULVIO
 E il Senato...
 CATONE
                          Il Senato
380non è più quel di pria, di schiavi è fatto
 un vilissimo gregge.
 FULVIO
                                        E Roma...
 CATONE
                                                            E Roma
 non sta fra quelle mura, ella è per tutto
 dove ancor non è spento
 di gloria e libertà l’amor natio.