Ciro riconosciuto, libretto, Ferrara, Barbieri, 1744

 CATONE
 No, gli dirai che parta e più non torni.
 FULVIO
 Ma come!
 MARZIA
                      (Oh ciel!)
 FULVIO
                                          Così...
 CATONE
                                                        Così mi cangio,
 così servo a un tal cenno.
 FULVIO
 E il foglio...
 CATONE
                        È un foglio infame
770che concepì, che scrisse
 non la ragion ma la viltade altrui.
 FULVIO
 E il Senato...
 CATONE
                          Il Senato
 non è più quel di pria, di schiavi è fatto
 un vilissimo gregge.
 FULVIO
                                        E Roma...
 CATONE
                                                            E Roma
775non sta fra quelle mura; ella è per tutto
 dove ancor non è spento
 di gloria e libertà l’amor natio;
 son Roma i fidi miei, Roma son io.
 
    Va’, ritorna al tuo tiranno,
780servi pure al tuo sovrano
 ma non dir che sei romano
 fin che vivi in servitù.
 
    Se al tuo cor non reca affanno
 d’un vil giogo ancor lo scorno,
785vergognar faratti un giorno
 qualche resto di virtù. (Parte)
 
 SCENA III
 
 MARZIA, ARBACE e FULVIO
 
 FULVIO
 A tanto eccesso arriva
 l’orgoglio di Catone!
 MARZIA
                                        Ah Fulvio, e ancora
 non conosci il suo zelo? Ei crede...
 FULVIO
                                                               Ei creda
790pur ciò che vuol. Conoscerà fra poco
 se di romano il nome
 degnamente conservo,
 e se a Cesare sono amico o servo. (Parte)
 ARBACE
 Marzia, posso una volta
795sperar pietà?
 MARZIA
                            Dagli occhi miei t’invola;
 non aggiungermi affanni
 colla presenza tua.
 ARBACE
                                    Dunque il servirti
 è demerito in me? Così geloso
 eseguisco e nascondo un tuo comando;
800e tu...
 MARZIA
              Ma fino a quando
 la noia ho da soffrir di questi tuoi
 rimproveri importuni? Io ti disciolgo
 d’ogni promessa; in libertà ti pongo
 di far quanto a te piace.
805Di’ ciò che vuoi, pur che mi lasci in pace.
 ARBACE
 E acconsenti ch’io possa
 libero favellar?
 MARZIA
                               Tutto acconsento,
 pur che le tue querele
 più non abbia a soffrir.
 ARBACE
                                             Marzia crudele.
 MARZIA
810Chi a tollerar ti sforza
 questa mia crudeltà? Di che ti lagni?
 Perché non cerchi altrove
 chi pietosa t’accolga? Io tel consiglio.
 Vanne, il tuo merto è grande; e mille in seno
815amabili sembianze Africa aduna.
 Contenderanno a gara
 l’acquisto del tuo cor. Di me ti scorda;
 ti vendica così.
 ARBACE
                              Giusto saria;
 ma chi tutto può far quel che desia?
 
820   So che pietà non hai
 e pur ti deggio amar.
 Dove apprendesti mai
 l’arte d’innamorar
 quando m’offendi?
 
825   Se compatir non sai,
 se amor non vive in te,
 perché crudel, perché
 così m’accendi? (Parte)
 
 SCENA IV
 
 MARZIA, poi EMILIA, indi CESARE
 
 MARZIA
 E qual sorte è la mia! Di pena in pena,
830di timore in timor passo e non provo
 un momento di pace.
 EMILIA
                                          Alfin partito
 è Cesare da noi. So già che invano
 in difesa di lui
 Marzia e Fulvio sudò; ma giovò poco
835e di Fulvio e di Marzia
 a Cesare il favor. Come sofferse
 quell’eroe sì gran torto?
 Che disse? Che farà? Tu lo saprai,
 tu che sei tanto alla sua gloria amica.
 MARZIA
840Ecco Cesare istesso, egli tel dica. (Vedendo venire Cesare)
 EMILIA
 Che veggo!
 CESARE
                        A tanto eccesso
 giunse Catone? E qual dover, qual legge
 può render mai la sua ferocia doma?
 È il Senato un vil gregge?
845È Cesare un tiranno? Ei solo è Roma?
 EMILIA
 E disse il vero.
 CESARE
                              Ah questo è troppo. Ei vuole
 che sian l’armi e la sorte
 giudici fra di noi? Saranno. Ei brama
 che al mio campo mi renda?
850Io vo. Di’ che m’aspetti e si difenda. (In atto di partire)
 MARZIA
 Deh ti placa. Il tuo sdegno in parte è giusto,
 il veggo anch’io; ma il padre
 a ragion dubitò; de’ suoi sospetti
 m’è nota la cagion, tutto saprai.
 EMILIA
855(Numi, che ascolto!)
 
 SCENA V
 
 FULVIO e detti
 
 FULVIO
                                        Ormai
 consolati, signor; la tua fortuna
 degna è d’invidia; ad ascoltarti alfine