Demetrio, libretto, Mannheim, Pierron, 1753

 Servilia promettesti. Altro non manca
 che d’Augusto l’assenso. Ora da lui
140impetrar lo potresti.
 SESTO
                                        Ogni tua brama,
 Annio, m’è legge. Impaziente anch’io
 son che alla nostra antica
 e tenera amicizia aggiunga il sangue
 un vincolo novello.
 ANNIO
                                     Io non ho pace
145senza la tua germana.
 SESTO
                                          E chi potrebbe
 rapirtene l’acquisto? Ella t’adora,
 io fino al giorno estremo
 sarò tuo; Tito è giusto.
 ANNIO
                                           Il so ma temo.
 
    Io sento che in petto
150mi palpita il core;
 né so qual sospetto
 mi faccia temer.
 
    Se dubbio è il contento,
 diventa in amore
155sicuro tormento
 l’incerto piacer. (Parte)
 
 SCENA IV
 
 SESTO solo
 
 SESTO
 Numi, assistenza. A poco a poco io perdo
 l’arbitrio di me stesso. Altro non odo
 che il mio funesto amor. Vitellia ha in fronte
160un astro che governa il mio destino.
 La superba lo sa; ne abusa; ed io
 né pure oso lagnarmi. Oh sovrumano
 poter della beltà! Voi che dal cielo
 tal dono aveste, ah non prendete esempio
165dalla tiranna mia. Regnate, è giusto;
 ma non così severo,
 ma non sia così duro il vostro impero.
 
    Opprimete i contumaci;
 son gli sdegni allor permessi;
170ma infierir contro gli oppressi,
 questo è un barbaro piacer.
 
    Non v’è trace in mezzo a’ Traci
 sì crudel che non risparmi
 quel meschin che getta l’armi,
175che si rende prigionier. (Parte)
 
 SCENA V
 
  Innanzi atrio del tempio di Giove Statore, luogo già celebre per le adunanze del Senato; indietro parte del Foro romano, magnificamente adornato d’archi, obelischi e trofei; da’ lati veduta in lontano del monte Palatino e d’un gran tratto della via Sacra; in faccia aspetto esteriore del Campidoglio e magnifica strada per cui vi si ascende.
 
 Nell’atrio suddetto saranno PUBLIO e i senatori romani ed i legati delle provincie soggette destinati a presentare al Senato gli annui imposti tributi. Mentre TITO preceduto da’ littori, seguito da’ pretoriani, accompagnato da SESTO e da ANNIO e circondato da numeroso popolo scende dal Campidoglio, cantasi il seguente
 
 CORO
 
    Serbate, o dei custodi
 della romana sorte,
 in Tito il giusto, il forte,
 l’onor di nostra età.
 
180   Voi gl’immortali allori
 su la cesarea chioma,
 voi custodite a Roma
 la sua felicità.
 
    Fu vostro un sì gran dono,
185sia lungo il dono vostro;
 l’invidi al mondo nostro
 il mondo che verrà. (Nel fine del coro suddetto giunge Tito nell’atrio, nel tempo medesimo Annio e Sesto da diverse parti)
 
 PUBLIO
 Te della patria il padre (A Tito)
 oggi appella il Senato; e mai più giusto
190non fu ne’ suoi decreti, o invitto Augusto.
 ANNIO
 Né padre sol ma sei
 suo nume tutelar. Più che mortale
 giacché altrui ti dimostri, a’ voti altrui
 comincia ad avvezzarti. Eccelso tempio
195ti destina il Senato; e là si vuole
 che fra divini onori
 anche il nume di Tito il Tebro adori.
 PUBLIO
 Quei tesori che vedi
 delle serve provincie annui tributi
200all’opra consagriam. Tito non sdegni
 questi del nostro amor pubblici segni.
 TITO
 Romani, unico oggetto
 è de’ voti di Tito il vostro amore;
 ma il vostro amor non passi