Didone abbandonata, libretto, Stoccarda, Cotta, 1763

 cor mio chi t’ama abbandonar potrai?
 ENEA
 Selene a me cor mio!
 SELENE
945È Didone che parla e non son io.
 ENEA
 Se per la tua germana
 così pietosa sei
 non curar più di me, ritorna a lei.
 Dille che si consoli,
950che ceda al fato e rassereni il ciglio.
 SELENE
 Ah no, cangia ben mio, cangia consiglio.
 ENEA
 Tu mi chiami tuo bene!
 SELENE
 È Didone che parla e non Selene.
 Se non l’ascolti almeno
955tu sei troppo inumano.
 ENEA
 L’ascolterò ma l’ascoltarla è vano.
 
    Non cede all’austro irato
 né teme allor che freme
 il turbine sdegnato
960quel monte che sublime
 le cime innalza al ciel.
 
    Costante ad ogni oltraggio
 sempre la fronte avvezza,
 disprezza il caldo raggio,
965non cura il freddo giel.
 
 SCENA XIII
 
 SELENE
 
 SELENE
 Chi udì, chi vide mai
 del mio più strano amor, sorte più ria?
 Taccio la fiamma mia
 e vicina al mio bene
970so scoprirgli l’altrui, non le mie pene.
 
    Veggio la sponda,
 sospiro il lido
 e pur dall’onda
 fuggir non so.
 
975   Se il mio dolore
 scoprir diffido,
 pietoso amore
 che mai farò. (Parte)
 
 SCENA XIV
 
 Gabinetto con sedie.
 
 DIDONE, poi ENEA
 
 DIDONE
 Incerta del mio fato
980io più viver non voglio; è tempo omai
 che per l’ultima volta Enea si tenti.
 Se dirgli i miei tormenti,
 se la pietà non giova,
 faccia la gelosia l’ultima prova.
 ENEA
985Ad ascoltar di nuovo
 i rimproveri tuoi vengo o regina.
 So che vuoi dirmi ingrato,
 perfido, mancator, spergiuro, indegno.
 Chiamami come vuoi, sfoga il tuo sdegno.
 DIDONE
990No, sdegnata io non sono. Infido, ingrato,
 perfido, mancator più non ti chiamo.
 Rammentarti non bramo i nostri ardori,
 da te chiedo consigli e non amori.
 Siedi. (Siedono)
 ENEA
                (Che mai dirà!)
 DIDONE