La favola de’ tre gobbi, libretto, Firenze, Pieri, 1751 (I tre gobbi rivali)

                                       Ezio innocente
 morì per colpa mia; non vuo’ che mora
1595innocente per Fulvia il padre ancora.
 VALENTINIANO
 Massimo è fido almeno.
 MASSIMO
                                              Adesso, Augusto,
 colpevole son io; se quell’indegna
 tanto obliar la fedeltà poteo,
 nell’error della figlia il padre è reo.
1600Puniscimi, assicura
 i giorni tuoi col mio morir. Potrebbe
 il naturale affetto,
 che per la prole in ogni petto eccede,
 del padre un dì contaminar la fede.
 VALENTINIANO
1605A suo piacer la sorte
 di me disponga, io m’abbandono a lei.
 Son stanco di temer. Se tanto affanno
 la vita ha da costar, no, non la curo.
 Nelle dubbiezze estreme
1610per mancanza di speme io m’assicuro.
 
    Per tutto il timore
 perigli m’addita.
 Si perda la vita,
 finisca il martire;
1615è meglio morire
 che viver così.
 
    La vita mi spiace,
 se ’l fato nemico
 la speme, la pace,
1620l’amante, l’amico
 mi toglie in un dì. (Parte)
 
 SCENA XI
 
 MASSIMO e FULVIA
 
 MASSIMO
 Partì una volta. Io per te vivo, o figlia,
 io respiro per te. Con quanta forza
 celai finor la tenerezza? Ah lascia,
1625mia speme, mio sostegno,
 cara difesa mia, che alfin t’abbracci. (Vuole abbracciar Fulvia)
 FULVIA
 Vanne, padre crudel.
 MASSIMO
                                         Perché mi scacci?
 FULVIA
 Tutte le mie sventure
 io riconosco in te. Basta ch’io seppi,
1630per salvarti, accusarmi.
 Vanne, non rammentarmi
 quanto per te perdei,
 qual son io per tua colpa e qual tu sei.
 MASSIMO
 E contrastar pretendi
1635al grato genitor questo d’affetto
 testimonio verace?
 Vieni... (Vuole abbracciarla)
 FULVIA
                  Ma per pietà lasciami in pace.
 Se grato esser mi vuoi, stringi quel ferro,
 svenami, o genitor. Questa mercede
1640col pianto in su le ciglia
 al padre che salvò chiede una figlia.
 MASSIMO
 
    Tergi l’ingiuste lagrime,
 dilegua il tuo martiro,
 che s’io per te respiro,
1645tu regnerai per me.
 
    Di raddolcirti io spero
 questo penoso affanno
 col dono d’un impero,
 col sangue d’un tiranno
1650che delle nostre ingiurie
 punito ancor non è. (Parte)
 
 SCENA XII
 
 FULVIA
 
 FULVIA
 Misera dove son! L’aure del Tebro
 son queste ch’io respiro?
 Per le strade m’aggiro
1655di Tebe e d’Argo; o dalle greche sponde
 di tragedie feconde
 le domestiche furie
 vennero a questi lidi
 della prole di Cadmo e degli Atridi?
1660Là d’un monarca ingiusto
 l’ingrata crudeltà m’empie d’orrore;
 d’un padre traditore
 qua la colpa m’agghiaccia;
 e lo sposo innocente ho sempre in faccia.
1665Oh immagini funeste!
 Oh memorie! Oh martiro!
 Ed io parlo infelice ed io respiro?
 
    Ah non son io che parlo;
 è il barbaro dolore
1670che mi divide il core,
 che delirar mi fa.
 
    Non cura il ciel tiranno
 l’affanno in cui mi vedo;
 un fulmine gli chiedo
1675e un fulmine non ha. (Parte)
 
 SCENA XIII
 
 Campidoglio antico con popolo.
 
 MASSIMO senza manto con seguito, poi VARO
 
 MASSIMO